Gesù sta con Equitalia
21 settembre – San Matteo Evangelista
Il giorno che tornerà Gesù, non lo troverai al Vaticano. Darà buca anche all’Onu, perché si sa, è Gesù. Se ti dico che hai più possibilità di trovarlo al bordello, tu sorridi perché in fondo ormai è una cosa da maudit il bordello: evoca più De Andrè che le piattole, il bordello è ok. Ma senti questa: lo sai dove sarà davvero più facile trovare Gesù? Dietro uno sportello di Equitalia.
Ecco, adesso sei scandalizzato.
Questo è l’effetto che faceva Gesù.
Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Gesù li udì e disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati (Vangelo secondo Matteo, 9,9-12).
Matteo è quasi tutto qui, di lui non sappiamo molto altro. Gli altri due vangeli sinottici non lo chiamano neanche Matteo (in greco: dono di Dio), ma Levi, nome così tipicamente ebraico. Il vangelo di Matteo è anonimo, ma è l’unico in cui Levi ha un nome nuovo, greco. Non sarebbe stato l’unico seguace ebreo di Gesù a rinnegare il nome: Saul divenne Paolo, Simone si faceva chiamare Pietro. Il caso di Matteo sarebbe particolare perché di tutti gli evangelisti è sicuramente quello che conosce meglio la Torah e i profeti – li cita continuamente. Marco se ne disinteressa, Luca è affascinato ma è chiaro che è un outsider, un autodidatta: Giovanni qualche libro l’ha letto bene ma è più un visionario che un biblista. Matteo è un ebreo (benché il suo vangelo ci sia arrivato in un buon greco) e ci tiene a farlo sapere; e ce l’ha con gli ebrei, e anche questo ci tiene a farlo sapere. Insomma il self-deprecating Jew esisteva già nel primo secolo.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci (Matteo, 23,13).
Se la polemica coi farisei è una costante dei vangeli, è in quello di Matteo che questi diventano i personaggi che conosciamo, i benpensanti per antonomasia, sempre lesti a ficcare il naso e giudicare. Si capisce che tra loro e Matteo-Levi c’è ruggine; alla loro tronfia sicurezza di essere nel giusto, Matteo contrappone l’angoscia del peccatore che sa di essere l’ultimo nel Regno dei Cieli. “In verità vi dico, le prostitute e i pubblicani vi precedono nel Regno!” Le prostitute si sa che mestiere facessero; i pubblicani raccoglievano i soldi delle tasse dei Romani. Siccome i soldi i Romani li volevano in anticipo, fare il pubblicano comportava un certo rischio d’impresa: si investiva un capitale e poi si aveva carta relativamente bianca per spremere i creditori. I pubblicani insomma erano peggio dei ladri, che almeno rubano per sé e non per l’oppressore. Che Gesù potesse far comunella con loro era motivo di scandalo. Gli stessi evangelisti restano perplessi: Luca, soprattutto.
In un ipotetico parlamento degli evangelisti, se il monarchico Marco siede all’estrema destra, e Matteo al centro moderato, Luca come abbiamo visto è l’evangelista liberal, socialdemocratico: non è ebreo ma non mostra ostilità nei loro confronti, nutre qualche simpatia per i poveri e le loro rivendicazioni, e per le donne: appena può cerca di metterle in primo piano. Luca questa passione di Gesù per gli esattori non la capisce molto: la riferisce, perché rispetta le sue fonti, però cerca di spiegarsela: possibile che Gesù stia con Equitalia? C’è qualcosa che non torna, come si può stare coi poveri e con chi li vessa? Forse è andata così: Gesù stava con gli esattori buoni, quelli che fanno il loro mestiere in modo compassionevole. Ma esistono gli esattori buoni? Al limite si possono inventare. Luca propone il personaggio di Zaccheo, il pubblicano simpatico che quando passa Gesù si arrampica su un albero per riuscire a vederlo tra la folla; ma tra tutti Gesù ha scelto di farsi invitare a pranzo proprio da lui.
«Zaccheo, scendi, presto, perché oggi debbo fermarmi a casa tua» (Luca, 19,5)
Zaccheo è l’esattore modello: metà di quel che raccoglie lo dà ai poveri (il che significa che raccoglie il 200% delle tasse che i Romani pretendevano, ma questo è un dettaglio che a Luca sfugge. Matteo una cosa del genere però non l’avrebbe scritta, Matteo conosce i tranelli del denaro). Zaccheo, quando scopre di aver truffato qualcuno, gli rende il quadruplo della somma: Zaccheo è insomma quel tipo di pubblicano che il Gesù di Luca può frequentare volentieri. I farisei storcono il naso, ma Luca si è messo la coscienza a posto.
Ecco, questo tipo di riconciliazione con la propria coscienza, Matteo non la conosce. Prima ancora di auto-disprezzarsi come ebreo, Matteo ha iniziato ad auto-disprezzarsi come pubblicano. Gesù un giorno è passato e gli ha detto di seguirlo. Da nessuna parte si legge se dopo la chiamata Matteo continuò a fare il suo mestiere. La parabola del giovane ricco suggerisce di no (“Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi, vieni e seguimi”). Il Gesù di Luca sceglie Zaccheo perché è un pubblicano buono; il Gesù di Matteo sceglie Matteo perché è un pubblicano che si vergogna. Ciò che rende i farisei insopportabili a Matteo non è tanto l’ipocrisia, quanto la serenità di chi sa di essere nel giusto. Matteo non era sereno, Matteo a un certo punto ha scelto Gesù e ha rinunciato a qualcos’altro: forse alla carriera o alla sicurezza economica. I pubblicani che compaiono nel suo vangelo non sono particolarmente compassionevoli. Compaiono spesso in coppia con l’altra categoria di paria, le prostitute. Matteo non ammette nemmeno di aver organizzato un grande banchetto per Gesù: è Luca a raccontarcelo. Per Matteo (e Marco) era un pranzo qualsiasi.
Di lui sopravvive solo questa vergogna: che altro sappiamo? Dopo la pentecoste sparisce dai radar al punto che non è nemmeno stato dichiarato martire; Iacopo da Varazze lo segnala in Etiopia mentre cerca di impedire il matrimonio di un Negus con una vergine, facendosi accoltellare: è un modo di ammettere che non c’erano stati avvistamenti più vicini o verosimili. A un certo punto, ma siamo già nel 120, Papia vescovo di Ierapoli lascia scritto che l’apostolo Matteo avrebbe raccolto una raccolta di detti di Gesù in ebraico: un vangelo? Potrebbe anche essere la famosa fonte Q, o un altro cartiglio andato perso. Nel frattempo però a Roma sta prendendo piede questo Vangelo anonimo, più elegante del rozzo Marco e meno egualitario di quello di Luca (a questa altezza il vangelo di Giovanni ancora non si è visto in giro, e comunque è una cosa completamente diversa, ai limiti della fan fiction).
Il fatto che a Roma vada per la maggiore un testo evidentemente scritto da un ebreo, ricco di spunti anti-ebraici, non è così bizzarro: nell’Urbe c’era una cospicua comunità ebraica, che dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 era diventata un punto di riferimento ancora più importante. Ma a Roma c’erano anche diversi cristiani; forse fino a un certo punto la presenza dei primi aveva favorito il consolidamento dei secondi, ma già quando Luca scrive gli Atti l’ostilità tra i due gruppi è manifesta. In questa situazione non sorprende il successo di un vangelo che, oltre a dipingere i farisei nel modo più insopportabile possibile, si impossessa delle antiche scritture ebraiche e le rilegge come profezie riguardanti il Cristo. A un orecchio contemporaneo il vangelo di Matteo sembra un prodotto più maturo di quello di Marco e Luca: il primo è un resoconto grezzo, scritto in un greco approssimativo: descrive le vicende di un guaritore bizzoso che si arrabbia anche coi suoi discepoli. Luca scrive una cronaca più complessa, addolcisce di molto il carattere del protagonista e gli affibbia qualche istanza sociale. Matteo (che probabilmente non è il Matteo vero) è su un altro piano. Luca si sentiva cronista, teneva molto all’ordine cronologico; Matteo è più scrittore: ha preoccupazioni stilistiche e riorganizza in modo tematico il materiale degli altri due sinottici per non annoiare il lettore. Quando scrive, ha già in mente una comunità organizzata: lo spontaneismo di Marco e Luca è finito, e soprattutto le donne sono tornate al loro posto. Maria di Nazareth, che per Luca era il vero inizio del vangelo, in Matteo non solo non ha diritto di parola, ma non riceve nemmeno la visita dell’angelo, che invece appare in sogno a suo marito.
Il fatto che fosse più adatto alla lettura in pubblico, e che presentasse una versione più moderata di Gesù e dei fatti che lo riguardavano, ha fatto sì che la Chiesa per molto tempo considerasse quello di Matteo il primo dei vangeli – c’era anche la necessità di datarlo prima del disastro del 70, in modo che le cupe parole di Gesù sul destino del Tempio di Gerusalemme si potessero considerare una profezia. L’attribuzione all’apostolo Matteo-Levi serviva appunto a rafforzare questa impressione di primizia: Marco e Luca erano testimoni indiretti, solo Matteo era stato tra gli apostoli. L’ipotesi era basata su indizi labili, per quanto suggestivi: il fatto che solo in questo vangelo Levi si chiami Matteo, e poi la questione del denaro. Chi ha scritto il testo di Matteo aveva una dimestichezza col denaro che gli altri evangelisti non hanno. Magari Matteo ha davvero rinnegato la sua professione di pubblicano e rinunciato a tutti i suoi beni, ma non ha mai smesso di considerare il denaro un’efficace metafora di tutte le cose.
Solo Matteo ricorda di aver sentito dire Gesù che il regno dei cieli è un tesoro in un campo: “un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo“. Solo per Matteo il regno può essere simile “a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra“: il rischio di chi si butta in un investimento difficile, né Marco né Luca potevano capirlo: quanto a Giovanni, il suo Gesù cacciava i mercanti dal tempio. Il Dio dei profeti può essere terribile, il Dio di Luca può essere misericordioso, il Dio di Matteo è un capitalista eccentrico che investe il suo denaro in un modo misterioso ma ehi, sono soldi suoi, può farci quel che vuole. Solo al Gesù di Matteo viene in mente di paragonare il Regno dei Cieli a un giorno di lavoro in cui all’ultimo momento i vendemmiatori scoprono di essere pagati a forfait: chi ha iniziato alle cinque del pomeriggio prende come chi è lì dall’alba. (“Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi“).
Anche la parabola dei talenti, che rende Matteo l’evangelista più popolare presso i conservatori, è tutta imbastita su un paradosso che avrebbe imbarazzato Luca, ma che è familiare a chi studia economia: Dio è un padrone che distribuisce i suoi talenti in modo diseguale. Non crede nell’eguaglianza e non si aspetta che gli uomini lottino per averla. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Quando tocca a Luca scrivere la stessa parabola, i talenti diventano mine (una moneta meno importante), e vengono ridistribuiti in modo uguale.
In queste e altre parabole, Matteo sembra nutrire un complesso del fratello minore. C’è sempre uno sdoppiamento, un personaggio che dovrebbe fare una cosa e non la fa, e un altro che magari è indegno, ma alla fine prende il posto del primo. C’è un padre che chiede a due figli di lavorargli la vigna: il primo dice di sì, ma non ci va: il secondo fa il contrario. C’è un re che non riesce a riempire il banchetto nuziale del figlio perché gli invitati preferiscono badare ai fatti loro: addirittura uccidono i servi che portano le partecipazioni. Allora il re li fa sterminare, e poi riempie le stanze con i primi venuti (purché si presentino col vestito buono). Tutte le storie possono essere lette in chiave antisemita: gli ebrei sono gli invitati, i fratelli maggiori, il sale che non vuole salare la terra, la luce che resta sotto il moggio. Il risentimento di Matteo nei loro confronti è tipico degli apostati. Secoli più tardi, quando il cristianesimo sarà egemone in Europa, le stesse parabole diventeranno un tarlo per tutti i benpensanti, quelli che credono di avere Dio dalla loro parte: Matteo non è mai d’accordo, Matteo diffida di chiunque arriva al lavoro in orario e alla festa con l’invito in mano. Tra tutte le parabole, nessuna mi ha mai turbato come quella delle cinque spose sagge e delle cinque spose stolte: dal titolo sembra promettere qualche fantasia orientale alle Mille e una notte, e invece è immersa nella stessa nebbia di certi piccoli incubi di Kafka. Dieci vergini aspettano il loro sposo con una lampada in mano. Cinque hanno preso un po’ d’olio di scorta, le altre no. Ma perché? E poi, dove siamo? Si sa solo che le vergini sono “uscite”: siamo per strada, forse su una panchina, ma è notte, non si vede niente, le spose si addormentano.
A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene.
Dai venditori? A mezzanotte? Perché dite una cosa talmente assurda? E poi chi è che stava gridando? E se lo sposo sta arrivando, c’è davvero bisogno di tutto questo olio? Dove c’è luce per cinque, c’è davvero bisogno di altre lampade? Insomma, se è una metafora di qualcosa, non sta riuscendo bene. Sembra più uno di quei sogni in cui ti avvisano che la tua laurea non ha valore, o che sei di nuovo a militare, o che il tuo prof di matematica, non lo vedi da vent’anni, ha intenzione di interrogarti domattina e non hai studiato. E ti aggiri per le vie oscure in cui hai abbandonato antichissimi sensi di colpa, pensavi di averli persi per sempre e invece eccoli che ti mettono in mezzo, aspettavano soltanto il sogno propizio.
Ora, mentre quelle andavano per comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco.
Che razza di Signore lascia fuori nella strada cinque vergini un po’ sbadate? Non ci laureeremo mai, non finirà mai il militare, il cavaliere del secchio tornerà a casa senza carbone. Dio è un incidente, arriva come un ladro e ti giudica per quello che sei in quell’istante. Hai conservato in ordine i modelli 740? Hai cancellato la cronologia? Non è giusto, e non ha mai detto di esserlo, a Matteo perlomeno. Gli disse “seguimi”, Matteo si buttò. Come un pazzo, o uno speculatore arrischiato.