Il martire boemo
16 maggio – San Giovanni Nepomuceno (1340-1393), patrono degli annegati, dei confessori e della Boemia.
Nel centro dell’Europa, perenne spina nel fianco destro tedesco, c’è una nazione che da quattordici anni non sappiamo come chiamare. Sulle cartine c’è scritto Repubblica Ceca. Manco fosse l’unica repubblica d’Europa: per dire, e invece l’Italia cos’è? L’Estonia? E il Lussemburgo? No, aspetta, il Lussemburgo è un Granducato. Però non leggerai su nessuna mappa d’Europa “Repubblica Estone” o “Granducato di Lussemburgo”, anche perché ti occuperebbe mezzo Belgio e tutta la Renania. Non è che i cechi siano più repubblicani degli altri: è che in italiano abbiamo l’aggettivo ma non il sostantivo. “Cechia” è una parola che proprio non riusciamo a dire. Qualcuno ci prova: ricordo in tal senso il coraggio di Claudio Lippi nel presentare Giochi Senza Frontiere. E però a un certo punto dovremmo anche rassegnarci: ci sono parole che funzionano e altre che non prendono mai il largo, e “Cechia” in italiano non ce l’ha fatta.
Io sarei per tornare a “Boemia”, che suona infinitamente meglio. E però ogni volta che su internet provo a proporre questa cosa, qualcuno protesta che sarebbe un’offesa ai moravi. In realtà non sono mai riuscito a capire perché un moravo dovrebbe offendersi meno se invece che “ceco” lo chiamiamo “boemo” (conoscete un moravo? Glielo chiedete per favore? grazie). I moravi in verità non sono né cechi né boemi. Sono una cospicua minoranza etnica all’interno della Repubblica Ceca: costituiscono il 30% della popolazione e occupano il 30% del territorio. Però non sono cechi. Sono moravi, appunto. Se ci tenessimo davvero alla loro opinione, dovremmo chiamarla Cecomoravia. Per fortuna non sembrano tenerci troppo neanche loro.
“Cechi” è il termine slavo occidentale con cui gli abitanti della Boemia chiamano sé stessi sin dall’alto medioevo. “Boemia” è una parola ancora più antica, derivata probabilmente dai Galli Boi che abitavano nella stessa zona prima di emigrare in Valpadana (non tutti), strappare Felsina agli Etruschi e ribattezzarla Bononia. Similmente agli ungheresi, che tutti chiamano così anche se tra loro preferiscono chiamarsi magiari, i cechi fuori dai loro confini erano conosciuti come boemi: Böhmen in tedesco, bohémiens in francese (che però era anche sinonimo di “zingari”, perché si riteneva che venissero da lì; finché per estensione diventarono bohémiens gli studenti squattrinati con ambizioni artistoidi, a metà strada tra hipster e pancabbestia). L’aggettivo “ceco” arriva nelle lingue occidentali nell’Ottocento, il secolo in cui incubano i nazionalismi e i tedeschi per primi scoprono la necessità di distinguere tra boemi di lingua tedesca (Deutschböhmen, concentrati nei Sudeti) e boemi di lingua… ceca (Tscheschien). I moravi però non c’entrano: perlappunto, non sono cechi, sono moravi. La tesi per cui Ceco=Boemo+Moravo non ha nessun serio fondamento, anche se ormai si sta consolidando (vedi la voce di Wiki Italia). Io non sono d’accordo, per cui da qui in poi dirò “Boemia”, e credo che tutti dovrebbero imitarmi. Questa sciocchezza della Repubblica Ceca è durata fin troppo.
D’altro canto come potrei definire San Jan Nepomucký patrono della Repubblica Ceca? Una delle nazioni più agnostiche al mondo, dove i cattolici non superano il 10% della popolazione, e nell’ultimo censimento il 35% si è definito “irreligioso” e il 40% non ha nemmeno risposto alla domanda? Jan di Nepomuck era un pio suddito del Regno di Boemia, Stato piccolo ma importante; specie quando alla fine del Trecento il suo re, Venceslao (Václav) il Pigro, riesce a farsi eleggere Sacro Romano Imperatore. Non deve fare una campagna elettorale a tappeto: gli elettori sono sei, uno dei quali è proprio lui. Non solo, ma essendo re di Boemia e principe del Brandeburgo, la Bolla d’Oro gli riconosce il doppio voto (come il jolly ai GSF).
Essendo Imperatore, Re e Principe, Venceslao ritiene di avere il sacrosanto diritto di nominare vescovo un suo sodale; purtroppo nessuna diocesi è vacante. In compenso è appena morto l’abate del monastero di Kladruby; Venceslao converte l’abbazia in diocesi e ordina ai monaci di sospendere le procedure per l’elezione dell’abate. I monaci non lo ascoltano e nel marzo 1393 eleggono il loro collega Olenus. Jan è il vicario generale dell’arcivescovo di Praga, che ratifica la nomina. Venceslao lo fa arrestare insieme ad altri tre membri dello staff; li fa torturare finché gli altri tre non cambiano idea, e infine condanna l’irremovibile Jan a morte per annegamento nella Moldava (il fiume che attraversa Praga – da non confondere con l’omonima repubblica che sta molto più a est). Fin qui Jan ha tutte le carte per diventare il Thomas Becket boemo: un ecclesiastico tutto d’un pezzo che non si arrende ai diktat del potere temporale e difende fino alla morte l’autonomia della Chiesa. E però la fortuna di Jan sarà molto inferiore a quella del collega inglese: i tempi stanno cambiando. Proprio in quel 1393 a Praga un giovane studente squattrinato sta prendendo la laurea breve in filosofia. Si chiama Jan Hus (continua…)
La linea che separa medioevo ed età moderna non taglia lo spazio-tempo in due tronconi netti: a osservarla da vicino è un intrico di linee più sottili e spezzate. Una di queste linee passa proprio per Praga, per quel 1393; Giovanni Nepomuceno, annegato per ordine dell’imperatore, vive e muore in uno spazio ancora solidamente medioevale: il che consente a chi verrà dopo di lui di mitizzarlo, addirittura di anticipare la data della sua morte per farla combaciare con la leggenda. Jan Hus è già al di qua del confine: di lì a poco otterrà una cattedra di teologia e ne approfitterà per divulgare le opere di John Wyclif malgrado qualche papa le abbia già trovate eretiche. In comune i due Jan hanno un tratto del destino: anche Hus sarà gettato in un fiume (il Reno che passa per Costanza), non prima di essere stato carbonizzato sul rogo e convertito in cenere. Un secolo dopo, Lutero eviterà per un soffio la stessa fine. La riforma protestante comincerà in Boemia con un secolo d’anticipo, e assumerà i tratti di una guerra di popolo contro la prepotenza dei regnanti di lingua tedesca. Tutto questo mette in ombra il sacrificio del primo Jan, morto per una causa che i praghesi non riconoscevano più.
Di canonizzazione non si parlerà per altri duecento anni: in mezzo ci sono tutte le guerre di religione che innaffiano l’Europa, facendola germogliare in una forma tanto diversa – gli hussiti contro l’imperatore, gli hussiti pro-Lutero contro gli hussiti anti-Lutero, le guerre di religione del Cinquecento e la guerra dei Trent’anni che proprio a Praga, vi ricorderete, prende il volo. Al termine di tutto il processo, i cattolici manterranno in Boemia una presenza residuale, tutelata dagli Asburgo. La necessità di trovare un eroe comune, uno Jan cattolico da contrapporre al più famoso Jan dei protestanti, inciampa in una difficoltà: Nepomucký ormai è una figura evanescente. Miracoli pochi, anche perché nel periodo hussita nessuno più glieli chiedeva. E a distanza di secoli è persino difficile capire cosa abbia fatto di eroico: ha scelto il martirio, d’accordo, proprio come Hus, ma per difendere cosa? Sul serio val la pena di morire per una ratifica? Anche il fatto che avesse disobbedito a un imperatore non doveva aiutare molto la sua causa presso una minoranza protetta dagli Asburgo. D’altro canto, se la sua storia non era più interessante, si poteva pur sempre cambiare.
È così che progressivamente la storia di Jan Nepomucký assume connotati diversi. Viene spostata dieci anni indietro (forse a causa del refuso di un cronista), e confusa ad arte con un oscura vicenda di gossip di corte. Jan diventa il confessore della moglie dell’imperatore Venceslao – non inverosimile, dopotutto era il canonico della cattedrale – e sull’imperatrice Giovanna di Baviera vengono fatti penzolare turpi sospetti. A Venceslao spetta ora il ruolo del classico re becco dei romanzi cavallereschi. Sospetta la tresca, ma Jan è integerrimo e si rifiuta di violare il segreto professionale e sacramentale: e allora Venceslao lo annega. Riscritta così, la storia fila meglio: difendendo il sacramento della confessione, Jan diventa il difensore di tutto il cattolicesimo. Ora sì che lo si può venerare in quanto martire. Tanto più che i gesuiti hanno l’idea di pubblicizzarlo come patrono degli annegati: un colpo di genio che conquista a Jan, anzi a Johannes Nepomucenus (finalmente canonizzato nel 1729), un cospicuo numero di chiese anche in Italia, da Venezia al Polesine a Livorno ad Acireale e in generale un po’ ovunque un fiume o una bufera minacci il povero cristiano. Anche la sua statua va molto forte nelle nicchie sui ponti. In patria molte furono rimosse e distrutte al termine della grande guerra, mentre la Cecoslovacchia si affrancava finalmente dagli Asburgo e si apprestava a decollare come repubblica laica dalle enormi potenzialità industriali. Però la lapide con la croce dalle cinque stelle è rimasta, nel luogo dove Jan sarebbe stato buttato a mare. Ancora oggi qualche anziano si leva il cappello. I turisti invece sfiorano la grata in ferro battuto: pare che porti 10 anni di fortuna. Certo, giù in piazza Jan Hus ha un monumento molto più grosso. Ma non lo sfiora nessuno, i protestanti non vanno in giro a toccar cose.