L’opzione San Gennaro
19 settembre – San Gennaro (272-305), patrono di Napoli.
Da quel che ho capito andrà così: stamattina alle nove meno un quarto il cardinale arcivescovo, Sua Eminenza Reverendissima Crescenzio Sepe, entrerà nella Reale Cappella del Tesoro di San Gennaro, una chiesa-nella-chiesa (fa parte del duomo di Napoli, ma non appartiene alla Curia, bensì alla Città. È complicato). Non si soffermerà nemmeno per un istante sugli ori e i preziosi il cui valore teorico complessivo supererebbe, secondo gli esperti e i gemmologi che hanno provato a stimarlo, quello dei gioielli della Corona d’Inghilterra. Il cardinale non li degnerà di uno sguardo, e non per modestia ma perché non si trovano lì, bensì dispersi tra un caveau e i tre piani del Museo del Tesoro attiguo. Senza distrarsi, girerà un paio di chiavi nell’antica cassaforte che custodisce ben altro tesoro: due modeste ampolline. Una è praticamente vuota: il contenuto è a Madrid, ce lo portò un re di Napoli (Carlo III) quando nel 1579 fu promosso re di Spagna. L’altra è quella che avete visto nelle foto, rossa di una sostanza che forse è sangue rappreso e forse no: e che tre volte all’anno, quando il Cardinale la solleva, la maneggia, la mostra ai credenti, a volte ritorna allo stato liquido; e a volte no. È un miracolo? No, per la Chiesa è soltanto un prodigio. Non occorre credervi; d’altro canto più di uno studioso negli ultimi anni si è adoperato a dimostrare che il fenomeno è spiegabile scientificamente senza ricorrere al soprannaturale. Anche il fatto che a volte si liquefaccia e a volte no potrebbe dipendere da fattori contingenti (temperatura, pressione, sollecitazioni da parte di chi regge l’ampolla). Speriamo in ogni caso che stamattina ce la faccia, perché quando resta secca non è di buon auspicio. Su internet poi si trova di tutto, ma una bella tabella con una serie storica di liquefazioni, e magari una correlazione con avvenimenti storici più o meno fortunati (guerre, pestilenze, eruzioni, scudetti del Napoli) non l’ho trovata.
Comunque, una volta esposto, il Sangue ha otto giorni a disposizione per liquefarsi; o meglio, i fedeli hanno una ottava per riuscire a commuovere il Santo con le loro preghiere. Se entro il 27 non è ancora successo niente, amen, San Gennaro non è mica obbligato. Certo sarebbe una cattiva notizia, e chi ha bisogno di cattive notizie di questi tempi? Napoli no di sicuro.
Deve già mandar giù il boccone del vulcanologo giapponese di fama mondiale che a un recente convegno ci ha fatto sapere che il Vesuvio potrebbe eruttare. Già che c’era poteva anche confidarci che sulla pizza ci vuole la mozzarella – ché non lo sappiamo, che il Vesuvio può eruttare da un momento all’altro? Ce lo deve venire a dire un giapponese? A noi che la vulcanologia l’abbiamo praticamente inventata, quando loro ancora stavano all’età del bronzo e noi già pubblicavamo i primi reportage delle eruzioni? Dico a te professor Nakada Setsuya, ti dice niente Plinio il Giovane? Ma poi davvero, è quel che si dice un segreto di Pulcinella. Persino Bertolaso, quando ancora dirigeva la Protezione Civile, ah, ve lo ricordate Bertolaso? Non esattamente un allarmista, anzi se c’era da convincere un aquilano a restare in casa durante uno sciame sismico, non si risparmiava. Ecco, proprio quel Bertolaso: forse che non lo sapeva che il Vesuvio potrebbe eruttare? Aveva anche proposto di allargare la zona rossa al Comune di Napoli. La zona rossa è un insieme di comuni molto densamente popolati che, laddove il vulcano cominciasse a brontolare, dovrebbero evacuare. Recentemente è stata ampliata: in questo momento vi abitano all’incirca 750.000 abitanti, più gli abusivi, meno gli emigrati. La quinta metropoli d’Italia, un po’ più piccola di Torino, molto più grande di Genova. Per Bertolaso, il minimizzatore Bertolaso, la zona andava ampliata un po’ di più, e guardando la cartina è difficile dargli torto: per quale motivo i lapilli o le nubi ardenti dovrebbero fermarsi ai limiti del comune di Napoli? C’è il problema che in quel comune risiede un altro milioncino di abitanti. Bertolaso non lo nascondeva: “Il Vesuvio è il più grande problema di Protezione Civile che c’è in Italia”. Bisognava valutare se “predisporre piani di evacuazione per almeno un milione di cittadini, tra cui molti di Napoli”. (Giornale della protezione civile, aprile 2010). Evacuare un milione di abitanti. Dove?
Eh.
In altre regioni d’Italia, dice il Piano. E va bene, in fondo che sarà mai ospitare più o meno un milione di sfollati della zona vesuviana per qualche giorno o mese. Il problema è un po’ più a monte. In altre regioni d’Italia, questi vesuviani, come ci arrivano? Ci sono abbastanza strade per portarli in sicurezza in tempi brevi? Ci saranno, professor Nakada, noi non è mica che ci facciamo cogliere impreparati; quattro giorni fa siamo riusciti a scucire 54 milioni di fondi europei per la Statale 268, quella che corre intorno alle pendici del vulcano. I lavori stanno per iniziare – quando saranno ultimati la statale si riverserà nella Milano-Napoli con un bello svincolo. Nel frattempo, se San Gennaro ci volesse dare una mano… Esercitazioni? Potremmo farne un po’ di più, questo è vero, e tuttavia con le esercitazioni bisogna andarci piano, quella volta che fecero l’antiterrorismo si scontrarono due ambulanze in piazza Garibaldi, cinque feriti. Ma insomma si fa quel che si può, e come si è affrettato a precisare l’istituto nazionale di vulcanologia, il Vesuvio è costantemente monitorato. È il vulcano più studiato del mondo.
Lo abbiamo sempre avuto tra i piedi – custodisce le orme di umani che fuggivano da un’eruzione liquida di tremila anni fa. Abbiamo i calchi dei pompeiani, bloccati nel fango nella posa in cui morirono, le mani al collo, intossicati e forse ustionati da una nube ardente e velenosa. Però sappiamo anche che può riposare per secoli interi. Tra 1000 e 1600 non si registrano eruzioni sicure. Nello stesso periodo anche la venerazione per Gennaro rimane abbastanza in sordina. Sicuramente i napoletani lo invocano sin dal quinto secolo, benché non fosse stato vescovo di Napoli ma di Benevento, e fosse morto a Pozzuoli ovviamente sotto Diocleziano, decapitato dai persecutori dopo una serie di tentativi infruttuosi (i leoni non lo volevano mangiare, la fornace non riusciva a cuocerlo, ecc). La testa era poi finita nelle catacombe di Capodimonte e i napoletani vi si erano affezionati: non abbastanza però da costruirgli una chiesa, mentre a una servetta come Santa Restituta era già dedicata una cattedrale. Non si preoccuparono nemmeno di recuperare il resto del corpo, che giacque per secoli dimenticato nell’abbazia di Montevergine, surclassato da reliquie più popolari. E le ampolline? Per quanto ne sappiamo sono sempre state a Napoli, ma non ne abbiamo notizia fino al 1389, in una cronaca dove per la prima volta si descrive la prodigiosa liquefazione, durante le celebrazioni ferragostane dell’Assunta. Lo stupore degli spettatori ci fa ipotizzare che stessero assistendo al fenomeno per la prima volta; d’altro canto questo tipo di celebrazioni attirano sempre gente che si lascia stupire facilmente, e quindi insomma potrebbe anche trattarsi di una tradizione già consolidata. Però una cronaca coeva non ne parla (nemmeno quando si sofferma sui miracoli attribuiti a Gennaro), e in generale nessuno ritiene necessario farne menzione fino alla seconda metà del Cinquecento. Gennaro diventa protagonista della devozione napoletana nello sfortunatissimo 1526, quando tra un assedio e una pestilenza i napoletani fanno voto di dedicargli almeno una cappella del nuovo duomo. La pestilenza si placa, ma per assolvere il voto ci sarebbe voluto più di un secolo, e soprattutto la prima grande eruzione esplosiva da secoli, quella del 1631. Di lì in poi i lavori procedettero più spediti e la cappella fu inaugurata nel giro di 15 anni (continua…)
Il Seicento è anche il secolo in cui la devozione a Gennaro assume in letteratura le forme che mantiene ancora oggi: la cerimonia tre volte all’anno, l’ostensione delle ampolline, la liquefazione interpretata come feedback positivo del Santo alla preghiere dei presenti, l’accumulazione di quell’incredibile tesoro che i napoletani vollero sempre tenere separato dal patrimonio della Curia, che pure possedeva il resto della cattedrale: il cancello bronzeo di Cosimo Fanzago è una specie di Checkpoint Charlie, da una parte le proprietà della diocesi, dall’altra quelle della Città. Gennaro sembra apprezzare, dando una mano a mantenere l’attività sismico-vulcanica entro limiti accettabili: nessuna delle eruzioni dell’era moderna è paragonabile per intensità a quelle conosciute in età preistorica, o quella descritta da Plinio. Il vulcano sembra addomesticato, il che non significa che ci si possa fidare: continua a sbuffare, incendiare e occasionalmente uccidere, ma ha la gentilezza di farlo a intervalli regolari, con un ciclo più o meno di quarant’anni. Il che permetteva a ogni generazione di prepararsi, in quella che era la città più popolosa della penisola (Roma non l’avrebbe raggiunta fino a tutto il Novecento; se poi includiamo anche l’hinterland vesuviano, la gara non è affatto chiusa). E la nostra, di generazione? Quand’è che il Vesuvio ha sbuffato o pisciato lava ultimamente, ve lo ricordate?
No.
Non eravate vivi. Forse nemmeno le vostre mamme. Abbiamo le foto, ma in bianco e nero. Un anno già tanto difficile di suo: 1944.
E poi? Cosa sta succedendo?
Si è spento? Un vulcano con una storia millenaria, proprio adesso? Difficile – e comunque abbiamo fatto gli scavi, e sappiamo che sotto c’è un mare di magma che arriva fin sotto al mare vero. Quindi, come il professor Nakada ha avuto la bontà di ricordarci, il Vesuvio prima o poi erutterà. Se San Gennaro ci dà un’occhiata, potrebbe risolversi tutto con una sboffata di fumo e la solita colata lavica stile Etna. Qualche quartiere edificato praticamente sotto il cono finirebbe distrutto, Sgarbi ne sarebbe deliziato, ma tutto sommato questo è uno scenario persino auspicabile.
Un’altra possibilità è che la terra cominci a tremare e vada avanti per mesi, come nel 1631. A quel punto avremmo un po’ di tempo per evacuare senza che diventi una Caporetto con i lapilli al posto degli austriaci. E tuttavia un milione di sfollati è una cosa che non abbiamo mai affrontato nella nostra storia: c’è capitato di andare in confusione per molto di meno, anche di recente. Certo, a quel punto si potrà contare sulla solidarietà internazionale, andiamo, è pur sempre la capitale della pizza. A chi non piace la pizza? Anche agli inglesi (gli inglesi hanno votato contro gli aiuti UE ai terremotati emiliani).
La terza possibilità è che le cose vadano veramente male: un’eruzione esplosiva senza molto preavviso. Vie di fuga bloccate da milioni di fuggitivi in preda al panico, eccetera eccetera. Il professor Nakada voleva ricordarci che anche questa ipotesi non si può scartare a priori. Però ha torto se pensa davvero che non abbiamo un piano. Lo abbiamo. Ne abbiamo avuti tanti. Uno si chiamava VesuVia: più esplicito di così c’era solo “Jatavénne”. Un programma di finanziamento alle famiglie che sceglievano di trasferirsi fuori dalla zona rossa. Centinaia di famiglie si sono effettivamente trasferite un po’ più in là, spesso in un’area che successivamente è stata inglobata nella zona rossa. E la vecchia casa? l’hanno affittata. Risultato: aumento della popolazione evacuabile.
Se chiedete a me, un piano ce l’avrei. Si prende l’oro di San Gennaro, non quello nel museo per carità. Si può salvare anche un po’ di bigiotteria da mettere indosso al busto del Santo in processione. Ma i preziosi nel caveau – a che serve tenere per secoli dei gioielli in un caveau? Per quale motivo i napoletani di ogni ceto li hanno ammucchiati lì per anni, se non per un’emergenza come questa? Si prende il tutto, si vende il vendibile, si cartolarizza onde evitare un crollo dei prezzi, e col ricavato si fanno interventi straordinari, per esempio un enorme film catastrofista da subappaltare anche a De Laurentis, se ci avesse le palle, con tutti gli attori più famosi di Napoli d’Italia e del mondo (te lo immagini Siani e Brad Pitt che fuggono assieme dribblando i lapilli). Chi non se lo vedrebbe, un film così. Potremmo persino recuperare l’investimento: e sarebbero altri soldi per la statale e per gli svincoli e per i rifugi a prova di nubi tossiche. Ma soprattutto, dopo aver visto un film così, non avremmo più alibi. Sapremmo che viviamo alla pendici del più grande disastro possibile. Magari sarebbe più facile cambiare abitudini, magari anche cambiare residenza, svolgere esercitazioni, eccetera eccetera. E tutto questo anche grazie a San Gennaro. È il mio piano. Purtroppo, ce n’è uno più semplice ed economico: aspettare e vedere come va.
Non è affatto un piano miope, anzi. Non è basato, come potrebbe sembrare, sull’ignoranza o sull’imprudenza, ma su un semplice calcolo dei costi e dei benefici. Prevenire i disastri naturali costa troppo. Qualcuno potrebbe obiettare che ricostruire dopo un disastro costa ancora di più, ma non è detto che sia così. Mettiamoci dal punto di vista di un politico. Per lui la prevenzione significa tasse: tasse significa perdere le elezioni. Quindi la prevenzione ha un costo inaccettabile. Viceversa il disastro significa solidarietà. Significa gesti incredibili, che solo un’emergenza può suggerire o giustificare. Se io oggi 19 settembre propongo di investire l’oro di San Gennaro in opere di prevenzione, voi mi pigliate per matto. Ma se tra qualche mese esplode tutto sul serio, persino una proposta così diventa all’improvviso ragionevole: cos’è una collezione di gioie in un caveau rispetto al pianto della vedova, ai gemiti dell’orfano? Purtroppo, affinché la solidarietà del mondo si sblocchi, occorre che la vedova diventi vedova, e l’orfano orfano. Meglio se a portata di videocamera. Lasciare che il Vesuvio erutti o esploda può sembrarvi una pazzia, ma a un certo livello di responsabilità diventa un’opzione più praticabile, più conveniente di altre. Nel frattempo continua l’operazione di addomesticamento simbolico, anche attraverso liturgie innovative, per esempio stiamo proponendo il Vesuvio come Patrimonio dell’Umanità. Una bella contraddizione in termini, oltre che una incredibile dichiarazione di immodestia: quella montagna eruttava già venticinquemila anni fa, e continuerà anche quando ci saremo estinti – a meno che non ci evolviamo in una specie un po’ meno fatalista.
La liquefazione del sangue di San Gennaro, per quanto prodigiosa, non è un evento così eccezionale. Soltanto a Napoli sono custodite ampolline di altri quattro santi (Giovanni Battista, Patrizia, Stefano Protomartire, Luigi Gonzaga), tutte in grado di sciogliersi se invocate in un certo modo. In giro per l’Italia ce ne sono tante altre, a un certo punto probabilmente era diventato un trucco artigianale e prevedibile quanto il coniglio nel cappello. Tra le varie teorie scientifiche, la più suggestiva è quella secondo cui si tratterebbe in tutti i casi di sangue autentico, anche se non necessariamente di questo o quel santo. Quello che accade al sangue delle ampolline di San Gennaro succederebbe al sangue di chiunque di noi, se avessimo l’accortezza di custodirne magari per secoli un piccolo quantitativo in un ampolla, e poi agitarlo in un certo modo. Siamo tutti San Gennaro, insomma. Possiamo scioglierci e combinare qualcosa, o seccarci e aspettare che qualcosa ci succeda comunque. Non dipende solo da noi, ovviamente: la pressione, la temperatura, la farfalla in Brasile, le infinite variabili che possono farci esplodere o regalare alla nostra progenie una terra fertile e felice. Sarebbe molto immodesto attribuirsi tutte queste responsabilità. Ma almeno qualcuna.