Il kolchoz di don Zeno
15 gennaio – Don Zeno Saltini (1900-1981), sovversivo, nomadelfo
Zeno Saltini non è per ora un santo, nemmeno un beato – sua sorella Marianna, lei sì; ma nel suo caso ci sono miracoli documentati. Zeno in compenso ha già avuto la sua fiction, e il processo di beatificazione comunque dovrebbe essere iniziato nel ’09, campa cavallo. In questi casi servono miracoli, e non dovrebbe nemmeno essere così difficile trovarli; ma non è probabilmente quel genere di miracoli che interessa al giorno d’oggi. Prendi Nomadelfia. Per come si sono messe le cose dagli anni Cinquanta in poi, il solo fatto che in Italia esista ancora un luogo come Nomadelfia, in cui “tutti i beni sono in comune, non esiste proprietà privata, non circola denaro, si lavora solo all’interno e non si è pagati” è un discreto miracolo. Siamo nel 2013, i kolchoz sono stati tutti privatizzati, la comunione dei beni è un’eresia persino in Cina, e Cuba fa tristezza; ma Nomadelfia resiste, quattro km quadrati per 270 abitanti in provincia di Grosseto, se siete curiosi andateci, è gente ospitale. Io non sono stato in molti posti in vita mia, ma a Nomadelfia ci sono stato. È stato tantissimo tempo fa, l’Unione Sovietica era ancora al suo posto nelle cartine. Ma ho la presunzione che non sia quasi cambiato niente, che i villaggi di prefabbricati siano ancora al loro posto, sulla collina sormontata da un’antenna. Se penso a Nomadelfia la prima cosa che mi viene in mente è un’antenna. C’è un motivo.
Un’altra cosa che ricordo è il vento battente, una cosa poco familiare qui da noi, che ti spazzava appena mettevi il naso fuori dai prefabbricati. Un vento che “ti mette appetito”, dicevano i locali. Era vero, avevo sempre una fame nervosa, per la verità non insolita nelle settimane a cavallo tra dicembre e gennaio. Di solito la combattevo frugando nella mia dispensa, concedendomi generose merende a base di avanzi di pandoro, ma a Nomadelfia si cenava sempre in lunghe tavolate, nei gruppi familiari, e mi vergognavo a chiedere che mi si riempisse di nuovo il piatto. Alla fine circolava questo panforte in fettine sottilissime; fino a quel momento ero stato piuttosto diffidente verso i dolci a base di frutta secca, ma quel panforte mi faceva impazzire. Avrei voluto mangiare tutte le fette dei miei commensali, avrei voluto scappare in cucina e mangiare tutta la scorta di panforte. Fino a quel momento il comunismo era stato per me un orizzonte teorico, non l’avevo mai immaginato in modo concreto, un posto dove anche se hai fame devi aspettare che mangino gli altri. Concettualmente ci arrivavo, ci ero sempre arrivato; ma il mio stomaco, scoprii allora, era un maledetto capitalista.
Don Zeno non parlava di capitalismo, né di comunismo. Un po’ forse nel tentativo (vano) di risparmiarsi qualche guaio con le varie autorità che gli complicarono la vita, un po’ perché erano paroloni, lui quando faceva le prediche a metà film amava tenere un registro più basso. Ai tempi in cui mio nonno lo sentiva comiziare a San Giacomo Roncole, lo slogan del suo Movimento per la Fraternità Umana era Fev do mòcc’, “fate due mucchi”: i poveri da una parte e i ricchi dall’altra, chiaro? Altro che capitalismo: i rècc’, i ricchi. Altro che classi sociali: i mucchi.
A differenza di altri preti rivoluzionari, che sotto la tonaca nascondevano una formazione classica persin troppo raffinata, Zeno non diede mai nella sua vita l’impressione di semplificare le sue idee per il volgo incolto: le idee di Zeno erano già semplici, e il volgo incolto era quello da cui proveniva lui, che aveva abbandonato la scuola a 14 anni, per poi vergognarsene. Quattro anni più tardi, arruolato alla Grande Guerra, sperimenta lo choc che gli cambia per sempre la vita. Niente bombardamenti: una semplice discussione di politica nelle retrovie con un compagno di branda, un amico anarchico. L’eloquenza di quest’ultimo lo annienta, lo umilia di fronte ai camerati. “Come in una bolgia infernale quasi tutti i soldati presenti cominciarono ad esaltarsi in favore del mio avversario: fischi, sgarberie, urla mi costrinsero al silenzio“. Perché non è riuscito a difendere le sue idee di bravo cattolico? Perché non è istruito, l’anarchico sì.
Al ritorno dal fronte Zeno informa il suo prete che ha intenzione di studiare teologia e diritto, da privatista. Le prime pagelle saranno agghiaccianti, ma Zeno è determinato: vuole diventare l’avvocato dei poveri. Riesce effettivamente a laurearsi alla Cattolica, ma poi preferisce farsi prete, convinto che i poveri si difendano meglio così. Nel ’31, durante la stessa cerimonia prende i voti e adotta il suo primo figlio, “Barile”, un giovane molto promettente ladro di polli che era andato a prelevare direttamente alla caserma dei Regi Carabinieri. Il primo di quattromila, dice la biografia ufficiale. Per tenere occupati i suoi piccoli apostoli, Zeno si affida alle sue passioni: il circo e il cinema. Trasforma gli orfani in saltimbanchi e affida loro la spericolata gestione delle sale parrocchiali. Gli porta fortuna la passione per i film americani, boicottati dal circuito delle sale ufficiali fasciste: noleggiarli costa poco, e le sale alla domenica sono sempre piene. A metà spettacolo i ragazzi accendono le luci e don Zeno fa la predica per quelli che a messa al mattino non c’erano, la maggior parte. Però chi a messa ci è venuto entra gratis: fuori dalla chiesa i Piccoli Apostoli ti timbrano il polso, come in disco.
A metà anni Trenta, nella Bassa modenese, i double feature dei Piccoli Apostoli, film+predica, sono lo show più trasgressivo consentito dal regime. Zeno riuscirebbe anche a guadagnarci, se non avesse una famiglia sempre più numerosa e se non reinvestisse parte del ricavato in una tipografia e in una bicicletta di corsa, poi in una moto, poi in una Balilla Torpedo, nel tentativo di simulare l’ubiquità in quello che ormai è un circuito alternativo, cinque sale diverse nel giro di 70 chilometri, in cui si proietta film americani introvabili altrove.
Un’altra cosa che ricordo di Nomadelfia è il religioso silenzio con cui il gruppo familiare assisteva alla trasmissione del telegiornale. “Religioso silenzio ” non è un modo di dire, era il medesimo che si sentiva durante le preghiere. Noi visitatori eravamo sorpresi dal fatto che i nostri coetanei guardassero i notiziari con tanta attenzione, e in breve scoprimmo che era una delle poche cose che si potevano guardare senza, come dire, censure. Perché a Nomadelfia quando ci sono stato c’era una sola antenna, in cima alla collina, che captava i programmi e alcuni (i notiziari) li ri-trasmetteva direttamente; tutti gli altri li filtrava, lasciando passare soltanto le cose, come dire, adatte. Era il secolo scorso, non esisteva ancora non dico il wi-fi ma nemmeno il protocollo http, magari adesso è tutto diverso. Anche se il sito di Nomadelfia dice che
L’uso della televisione è libero per quanto riguarda l’informazione, mentre si opera una scelta dei programmi visibili che sono trasmessi via cavo dalla emittente interna.
Per esempio, scoprimmo, niente cartoni animati. Era l’anno di qualche capolavoro Disney che non ricordo, la Sirenetta o simili. Alcune mie compagne scoprirono discutendo coi coetanei che nel villaggio quelle cose lì non si vedevano, e i pochi spezzoni che filtravano dal notiziario venivano trattati con ostile diffidenza, in quanto cose “non vere”, e quindi non utili, non interessanti. Io nel frattempo pensavo ad altro, per esempio oltre che a combattere con l’imperialismo del mio stomaco ero molto preoccupato dal catalogo della biblioteca. La mia consapevolezza politica di liceale mi diceva che se censuravano le onde radio probabilmente avevano anche censurato la biblioteca, il che mi preoccupava assai di più dell’eventuale messa al bando di Mike Bongiorno o Pippo Baudo. Fui molto rassicurato, nella mia dabbenaggine, quando vidi che esponevano una copia dei Fiori del Male. La cosa più decadente e satanica che mi veniva in mente. Se c’è Baudelaire va tutto bene, mi dissi, non c’è totalitarismo (tutte le volte che ripenso a questa cosa, misuro una distanza sempre più estesa tra me e quel coglione che pensava che un libro di Baudelaire sullo scaffale contasse di più, in termini di apertura culturale, della possibilità di mostrare un film animato a un bambino. Come se noi fossimo diventati quel che siamo perché al liceo abbiamo letto cinque o sei poesie di Baudelaire, e non perché abbiamo visto La Carica dei 101 e il Libro della Giungla).
Nel 1941 a San Giacomo arriva la prima “mamma di vocazione”, in realtà una ragazza, Irene, che aveva visto Zeno e la sorella Marianna adottare decine di monelli e intendeva seguire l’esempio. Orfani non ne mancavano, e negli anni successivi il fenomeno sarebbe esploso. Zeno, che in un qualche modo era riuscito a evitare grossi guai con le autorità per tutto il ventennio, si ritrova arrestato dai carabinieri di Badoglio per un volantino. Dopo l’otto settembre capisce che è meglio cambiare aria: nel frattempo molti dei suoi Piccoli apostoli aderiscono alla Resistenza, facendosi anche ammazzare. L’amico Odoardo Focherini si prodigherà a mettere in salvo gli ebrei, lui l’hanno fatto beato l’anno scorso. Intanto Zeno a Roma frequenta gli esponenti della nuova Democrazia Cristiana, quel tanto che gli basta a capire che non vuole averci a che fare. “Se il Cristianesimo fosse quello predicato dalla Democrazia Cristiana, io sarei, o ebreo o ateo”, scrive nel ’47 all’amico monsignor Crovella. “Noi Piccoli Apostoli siamo a sinistra molto più dei comunisti, quindi condannabili anche da questi, che sono malati al fegato di politica settaria ed ideologica come gli stessi Democratici Cristiani”. In seguito ritratterà, dirà che Nomadelfia non è né di destra né di sinistra, una cosa che a un certo punto della vita dicono tutti.
Il fatto è che alla fine della guerra la situazione nella Bassa modenese è così esplosiva che anche un prete collettivista che predica il superamento dell’istituzione familiare può sembrare un moderato, se non altro perché non ha neanche un’arma nascosta in cantina, e poi la sua intransigenza mette quasi in imbarazzo i comunisti. Per cui davvero può darsi che Pio XII a un certo punto abbia dato una specie di via libera a don Zeno e ai suoi Piccoli, che nel ’48 rompono gli indugi e occupano pacificamente l’ex campo di concentramento di Fossoli – nessuno in quel momento avrebbe potuto concepire l’idea di farci un museo, la guerra era ancora un buco nero da riempire immediatamente con un futuro il più possibile luminoso, e il futuro di don Zeno si chiamava Nomadelfia. “Avremo una popolazione di soli Piccoli Apostoli con leggi e costumi del tutto secondo le nostre mire cristiane e sociali”…
Essendo nelle nostre mani anche la parrocchia di Fossoli, ci sarà facile aggregare alla erigenda parrocchia di Piccoli Apostoli soli; quel territorio che man mano ci occorrerà per crearvi le nostre borgate. Così avremo nella S. Madre Chiesa una prima parrocchia dove la legge di vita dei parrocchiani è la fraternità cristiana in tutti i settori della vita personale, famigliare, sociale: Nomadelfia (dove la fraternità è legge).
Sorgeranno le borgate, ognuna di esse sarà parrocchia alle dipendenze dell’Opera e finalmente una diocesi. In pochi anni, se le vie di Dio continuano di questo passo, saremo una diocesi dove non esistono né servi né padroni, ma soli fratelli in Cristo, tutti dediti all’apostolato nel mondo.
Le vie di Dio, non occorre sottolinearlo, presero alla svelta un’altra direzione: l’idea di una Diocesi-Kolchoz nella bassa modenese tramontò rapida quanto rapido aumentava il debito dell’Opera Piccoli Apostoli, perché gli emiliani erano ben lieti di prestare al buon Zeno quanto gli serviva, ma mica a fondo perduto, anzi con gli interessi. I debiti furono il modo in cui il sistema bocciò il progetto di don Zeno, ma per farlo sloggiare ci volle la Celere di Scelba. I minori furono dispersi negli orfanotrofi. Nel frattempo, grazie a una pia e generosissima donazione di Maria Giovanna Albertoni Pirelli, Nomadelfia aveva aperto una filiale in Maremma, un luogo dimenticato da Dio e dai lupi, nel quale i Piccoli Apostoli arrivarono come padri pellegrini in un nuovo continente: per due anni, mentre dissodavano e disboscavano, vissero nelle tende. Nasce in quel periodo l’equivoco tra “nomadi” e “nomadelfia”, che in realtà è l’accrocchio di due parole greche, “fraternità” e “legge”. Ma appunto, negli anni Cinquanta accettare la legge della fraternità poteva significare ritrovarsi a vivere come un beduino nella Toscana profonda. Per poter seguire i suoi don Zeno si era temporaneamente spretato, chiedendo e ottenendo la riduzione allo stato laicale.
A un certo punto durante il nostro soggiorno ci accorgemmo che ci stavamo annoiando. Non eravamo un gruppo di turisti, ci ispiravamo a una forte idea di servizio, e eravamo abituati a spostarci solo per aiutare qualcuno o qualcosa. I nomadelfi però non avevano bisogno del nostro aiuto: ci tenevano particolarmente a mostrare la loro autosufficienza, e si limitavano a mostrarci tutto quello che facevano e producevano. Insomma andavamo in giro a ispezionare il caseificio, la tipografia, l’officina, eccetera. Sembravamo un gruppo di ispettori sovietici, ma eravamo dei ragazzini, volevamo divertirci. Avevamo notato che c’era un campo di calcio e così sfidammo i nomadelfi a pallone. Noi di solito giocavamo misti, con le ragazze in attacco a creare confusione nell’area avversaria (niente fuorigioco). Le ragazze di Nomadelfia invece non giocavano.
Ci spiegarono che in realtà non avevano mai giocato, “non era costume” che una ragazza giocasse. L’espressione sembrava arrivata diretta dagli anni Cinquanta come una cartolina bloccata in una fessura dell’ufficio postale per quarant’anni; ma del resto a Nomadelfia in provincia di Grosseto resistevano voci del dialetto modenese che in Emilia ormai si stavano perdendo, come “razdora”, ovvero reggitrice, colei che governa la casa, più mater familias che casalinga: il perno del gruppo familiare.
Lo sgombero di Fossoli fu la grande batosta della vita di don Zeno. Fino a quel momento lui e i suoi non avevano forse avuto percezione dell’ostilità del mondo esterno: in fondo non volevano fare nulla di male, soltanto abolire il denaro e le classi sociali. Anche quando la tensione col Vaticano si sarà allentata, e Giovanni XXIII consentirà a Zeno di ri-consacrarsi sacerdote, i nomadelfi esiteranno a mettere radici. Quando ci andai gran parte delle abitazioni erano ancora prefabbricati smontabili: è un popolo pronto a partire, gli è già successo. I sogni rivoluzionari di Zeno finiscono lì, nella difesa appassionata di quattro chilometri quadrati in provincia di Grosseto. Un popolo, dice lui, ma anche una proposta al mondo. I ragazzini studiano ancora da saltinbanchi, e durante l’estate Nomadelfia diventa un teatro tenda itinerante: a metà dello spettacolo c’è ancora il momento fisso della predica.
Nomadelfia non è più un orfanotrofio, l’offerta di orfani negli ultimi trent’anni è crollata. Oggi le mamme di vocazione lavorano soprattutto con gli affidi: per quelli c’è sempre richiesta. Me ne ricordo uno che mi mostrò un piccolo crocefisso di legno trafitto nel costato da una freccetta da tirassegno; disse che l’aveva centrato da cinque metri, un colpo incredibile, anche perché non lo aveva mirato, non intendeva colpirlo. L’ultima rivoluzione compiuta da don Zeno, la meno nota, fu forse la più radicale: dopo aver abolito proprietà privata e classi sociali, Zeno tentò di eliminare le famiglie, o almeno di farle funzionare in un modo diverso. Al riguardo le fonti sono vaghe ed evasive, comunque a un certo punto Zeno si rese conto che anche in assenza di denaro, tra le famiglie nascevano dinamiche negative. E allora si inventò il gruppo familiare, un agglomerato di prefabbricati in cui le famiglie avrebbero pranzato assieme, di giorno, per poi ritirarsi in casette separate, la notte. Per evitare che i gruppi col tempo si trasformassero in clan, ogni tre anni si sarebbero dissolti, e rimescolati con gli altri. Non tutti erano d’accordo con l’idea: chi non era d’accordo se ne andò.
Questa più o meno era la situazione quando ci andai, ed è passato davvero molto tempo; ma a leggere i documenti ufficiali in rete non noto nessuna novità. Mi riesce facile immaginare che Nomadelfia sia ancora lì, prefabbricata e sbattuta dal vento; che l’antenna trasmetta ancora quello che ritiene giusto trasmettere, che le madri più eminenti siano chiamate razdore. Può darsi che il comunismo non abbia niente che non vada, ma tende all’equilibrio, e se le cose vanno abbastanza bene le lascia come stanno: Nomadelfia quando ci andai mi sembrava un posto tutto sommato in pace con sé stesso, la foto di don Zeno (scomparso nel 1981) era appesa un po’ dappertutto insieme a quella di Giovanni Paolo II che l’anno prima aveva voluto visitare quel villaggetto pacificamente opposto a tutto il mondo. Il comunismo forse non ha niente che non va, il problema è quando ne esiste solo una piccola bolla in un universo capitalista che per sua natura non può star fermo, deve stravolgere tutto in continuazione. Occorre scoprire necessità diverse, esaudirle, rimanere insoddisfatti, cercare di diventare persone diverse, riuscirci, rimpiangere quelli che eravamo prima eccetera. L’idea che in questo vortice Nomadelfia resista tranquilla ha del miracoloso, ma non credo che sia quel tipo di miracolo che ti svolta una causa di beatificazione.
Io non sono stato in tantissimi posti in vita mia, ma a Nomadelfia ci sono stato, e devo essere sincero: mi aspettavo qualcos’altro, chissà cosa. Un posto più aperto all’esterno, la versione stabile di quella bella compagnia in cui stavo crescendo in quel momento, in cui ragazzi e ragazze si davano del tu e giocavano a pallone. Il gruppo si è sciolto qualche anno più tardi quando i più grandi hanno cominciato a metter su famiglia: in questo Zeno aveva ragione, famiglie e comunità non vanno così d’accordo. Ogni tanto trovo i volantini degli spettacoli itineranti di Nomadelfia e mi viene tenerezza, mi domando se una cosa così fuori dal tempo non dovrebbe essere protetta, non so, dai beni culturali. Ma il più della volte non ci penso a Nomadelfia. Solo qualche volta tra dicembre e gennaio mi vedete alla coop che cerco il panforte in offerta speciale. È una cosa particolare quella tra il panforte e me, se ne apro uno posso mangiarlo intero, i miei familiari lo sanno e mi tollerano, ma ignorano lo choc che ci sta dietro, il momento cruciale della mia vita in cui il mio stomaco ha capito cos’era il comunismo e non gli è piaciuto, veramente, mi piacerebbe poter raccontare di sì ma la verità è che no, non mi piace il comunismo, preferisco le mandorle.