Stefano è il primo
26 dicembre – Santo Stefano, primo martire.
O poesia della festa di Santo Stefano, fragrante di panettone secco e citrosodina. Festa di cinture slacciate, di avanzi riscaldati, di cartacce che frusciano sul pavimento – appena ieri erano involucri preziosi, contenevano la Magia del Natale, adesso aspettano il camino o la differenziata. Eppure testimoniano che qui passò una Festa di quelle importanti, di quelle che ti servono a segnare il tempo, per sempre il 2012 sarà quell’anno in cui a natale lo zio rovesciò lo champagne sul vestito nuovo della tua fidanzata ma non importa, è Santostefano, chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, anzi no ci sono ancora degli antipasti da ieri, qualcuno vuole degli antipasti? E sbafiamoci pure questi volovòn – no, aspetta, ci stanno le cozze. Nessuno poi si ricorda cos’ha fatto a Santostefano.
Che forse è il giorno più bello dell’anno, proprio per questo. Un giorno di crapula, postumi e oblio. È andata, non dovrai più preoccuparti di pacchetti e pensieri e presenti, e certi parenti molesti non si ripresenteranno più almeno per altri 364 giorni. Da qui in poi è in discesa – è vero che bisogna ancora sorpassare quella notte incresciosa in cui bombardano i cassonetti – ma il più è fatto. Eppure l’anno nuovo coi suoi fardelli sembra ancora lontano, lontano, quasi una settimana di distanza; e se sei ancora uno studente la Befana è lontanissima, c’è tutto il tempo per farsi venire la nausea da playstation. Santostefano, secondo me, per la maggior parte di chi lo festeggia non esiste, non sanno nemmeno che si chiama così. Non hanno mai smesso veramente di mangiare, magari allo stesso tavolo, oppure stanno videogiocando ininterrottamente da venti ore, in tv fanno ancora roba natalizia, e chi sarebbe ‘sto Stefano poi.
Un piantagrane, un classico martire saccente, di quelli che vogliono spiegare tutto a tutti e presto o tardi si mettono nei guai. Nel suo caso prestissimo: Stefano è il primo martire in assoluto. Subito dopo Gesù, forse appena un anno dopo, tocca a Stefano, che potrebbe non averlo mai conosciuto, ma si fa comunque ammazzare in suo nome. La maggior parte dei laici in hangover natalizio semplicemente lo ignora, ma anche i veri praticanti – e da poche cose li riconosci come dal fatto che hanno messo la sveglia per andare a messa pure a santostefano, che è festa di precetto (pare che invece non lo sia) – restano talvolta un po’ perplessi. Hanno ancora nelle orecchie gli inni di Natale, gli angeli e i pastori e la mangiatoia (e i Magi non sono ancora arrivati), e invece il 26 è tutta un’altra storia, dal sapore tipicamente pasquale, un processo al sinedrio, un martirio… una piccola pasqua, all’indomani del Natale. Non è chiaro esattamente come mai sia andata così. Né il Natale, né il martirio di Santo Stefano sono date storiche: Iacopo da Varazze ricorda che in un primo momento la passione del Santo si festeggiava nello stesso giorno dell'”invenzione”, cioè del ritrovamento delle reliquie (3 agosto); poi si decise di spostarla in dicembre, anche per separare la commemorazione dello Stefano storico da quello prodigioso che, disseminato in mille santuari (tra Venezia e Roma dovrebbero esserci almeno due corpi, in tutto quattro braccia se si aggiunge quello custodito a Capua), aveva ovunque sbalordito con miracoli spettacolari.
Lo Stefano del ventisei dicembre invece è probabilmente un ragazzino meno prudente dei suoi compari, che si fa beccare mentre dice cose molto blasfeme sulla religione degli ebrei (a Gerusalemme, in quegli anni, non era veramente il caso). Condotto al tribunale religioso, il Sommo Sinedrio, invece di rimangiarsi i suoi discorsi su Gesù Cristo distruttore di templi e sovvertitore di costumi, conferma ogni cosa, ma con dovizia di citazioni bibliche allo scopo di dimostrare che Gesù è il Cristo, che in ebraico sta per Messia. Ora, vuoi far arrabbiare un ebreo? Mettiti a spiegargli la Torah. Quelli impazziscono di rabbia, nei modi molto teatrali in cui era necessario farlo all’epoca: digrignano i denti, si tappano le orecchie, prorompono in grida altissime. Ma non si stracciano le vesti. Con Gesù si erano stracciati le vesti, con Stefano no, forse si era capito che l’eresia gesucristiana rischiava di durare parecchio e non ci si poteva permettere una veste nuova a ogni processo.
Ai nostri occhi moderni può sembrare una sceneggiata, ma erano tempi in cui non esisteva il montaggio serrato delle immagini, né le basi drammatiche da sovrapporre in cabina di regia: era tutto in diretta, ci si arrangiava con grida altissime e gesti esagerati, visibili anche da lontano. Comunque, mentre digrignano e strepitano, Stefano va in estasi, ha una visione: “Ecco io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”. A quel punto la rabbia è tale che i sacerdoti si permettono quello che nemmeno con Gesù avevano osato fare: lo portano in un prato fuori città e lo ammazzano a pietrate. Era la pena prevista dalle Scritture per i blasfemi, e Gesù era stato ritenuto colpevole dello stesso reato. Ma in quel caso i sacerdoti si erano ben guardati dall’eseguire una sentenza, visto che la forza d’occupazione romana in città glielo impediva: solo il procuratore Pilato aveva il potere di mettere a morte un uomo. Pilato poi aveva fatto quell’altra scenetta molto teatrale del lavarsi le mani, ma non c’è dubbio che Gesù sia morto per mano di boia romani, inchiodato al più romano dei supplizi.
Stefano invece muore in modo molto mediorientale, ancora oggi ogni tanto da quelle parti qualcuno (più spesso qualcuna) rischia di finire così, lapidato. Cosa sta succedendo in città? Qualche storico si è azzardato a supporre che la differenza abbia un senso storico: ai tempi di Pilato il sinedrio non aveva il diritto di giustiziare un uomo, quindi Stefano deve essere morto dopo, in un breve periodo di interregno tra un procuratore e l’altro. Pilato viene effettivamente sollevato dall’incarico nel 36 tra le proteste: non per avere ucciso Gesù (già mezzo dimenticato), ma per avere represso una rivolta nel sangue. La data è compatibile col racconto degli Atti, ma non è detto che le cose siano andate così: forse Stefano fu semplicemente vittima di un linciaggio, forse l’intenzione dei sacerdoti non era farlo fuori, e la cosa scappò di mano. Di sicuro il suo lungo discorso fiorito di citazioni bibliche sembra strapparti i sassi dalle mani, Gesù al confronto è un tipo laconico, con le sue frasi un po’ sibilline che possono significare tutto e niente. Stefano invece è proprio il primo della classe, vuol far sapere che ha studiato la lezione e la sa meglio di tutti.
C’è un che di verosimile nel fatto che il primo a morire per la nuova fede sia uno come lui. Non un apostolo, non un testimone diretto della vita di Gesù. Gli apostoli – più maturi, più consapevoli dei rischi e forse istintivamente portati a cercare un modus vivendi con le autorità ebraiche – da qualche tempo avevano optato per un basso profilo in città. Fino a quel momento nessuno era stato perseguitato per la propria adesione a questa nuova forma eretica di ebraismo in cui si identificava Gesù col Messia: Pietro, è vero, era stato messo agli arresti, ma era stato prontamente liberato da un angelo, o da un GIP clemente, non sappiamo. A un certo punto però gli apostoli decidono di concentrarsi sull’apostolato e delegare l’ordinaria amministrazione dei sacramenti a sette persone: sono i primi diaconi. Hanno tutti un nome greco: questo non significa nulla, i nomi greci erano ormai diffusi in tutto il quadrante orientale dell’impero, e anche molti apostoli ne avevano uno (c’erano poi strani ibridi, come BarTolomeo). Anche nel caso di Stefano, non sappiamo se fosse ebreo o no. Il nome greco ci fa immaginare che provenisse da una famiglia “ellenizzata”, il cui stile di vita era più simile a quello di un suddito greco dell’Impero, che a un tradizionalista ebraico. In effetti il dubbio è che Stefano sia vittima, più che di una persecuzione cristiana a opera di ebrei, di una dei periodici scontri tra ebrei ellenizzati ed ebrei tradizionalisti, che dovevano fare di Gerusalemme una specie di Belfast del mondo antico. Per contro i cristiani come Pietro, o come Giacomo “fratello del Signore”, che pur dicendosi seguaci di Cristo continuavano a rispettare le leggi ebraiche, non sembravano avere nulla da temere dalle autorità. Ma in realtà non possiamo sapere come siano andate realmente le cose.
Quel che sappiamo è che quando Stefano diventerà una star assoluta del pantheon, padon, del calendario cristiano, lo dovrà oltre al suo primato al fatto di essere un rarissimo esempio di vittima degli ebrei. Di solito gli ebrei non si trovano nella posizione di persecutori, ma con Stefano le cose sembrano andate così. Diventerà in diversi casi una bandiera dell’antisemitismo cristiano: a Minorca, dove durante la traslazione delle reliquie gli ebrei vengono costretti a convertirsi e assumerlo come santo patrono; in Asia Minore, dove la venerazione per Stefano viene diffusa dal clero per contrastare quella nei confronti dei Maccabei, protagonisti dei libri più barricaderi e anti-ellenici dell’antico Testamento.
Ma per diventare così popolare, Stefano doveva mettersi a fare enormi prodigi, ed è quello che successe proprio a partire dal quinto secolo, quando ormai il cristianesimo era religione di Stato, e gli eretici da perseguitare erano diventati gli ebrei. È a questo punto che un sogno miracoloso di un monaco porta alla scoperta sensazionale delle reliquie di Stefano, reliquie che ovviamente fanno il giro del mediterraneo: prima prelevate da una nobildonna che a causa di uno scambio di persona, anzi di salma, le porta a Costantinopoli in luogo dei resti di suo marito. Poi da Costantinopoli viene organizzato uno scambio alla pari, Lorenzo di Spagna in cambio di Stefano protomartire, ma qualcosa va storto. Stefano viene effettivamente portato a Roma, ma i fedeli costantinopolitani venuti a portarlo e a ritirare le spoglie di Lorenzo muoiono tutti miracolosamente. Almeno Iacopo da Varazze scrive che fu un miracolo, ma non ci sono testimoni – anche i pochi romani favorevoli allo scambio muoiono contestualmente – e insomma il risultato è che i romani si sono tenuti sia Stefano che Lorenzo; quest’ultimo poi alla notizia dell’arrivo di tanto collega sembra che si sia allegramente fatto da parte nella tomba, accucciandosi come un amante per lasciare un po’ di posto al nuovo arrivato. Non che ci fosse bisogno di così tanto spazio: il cranio andò alla basilica di San Paolo fuori le mura, tranne qualche frammento che si trova a Putignano (BA); un braccio a Sant’Ivo alla Sapienza, un altro braccio a San Luigi dei Francesi, un altro ancora a Santa Cecilia in Trastevere, uno ancora a Capua, Stefano era un freak.
Sempre secondo Iacopo i giorni immediatamente successivi al Natale sono quelli in cui si celebrano i primi compagni di Gesù, i martiri, nelle tre tipologie: San Giovanni evangelista (27) è l’esempio di un santo che volle il martirio ma non lo ottenne. I santi innocenti (28) forniscono l’esempio contrario: sono santi che non volevano essere martirizzati, ma gli successe comunque, beati loro. Stefano 26 rappresenta invece la prima categoria di martiri: quelli che il martirio lo hanno voluto e lo hanno trovato. Se la sono cercata, diremmo oggi. Festeggiarlo proprio oggi, nel giorno più rilassato dell’anno, ha un certo retrogusto di beffa. Beviamoci su del limoncino.