Il santo che salvò il Colosseo (più o meno)
26 novembre – San Leonardo di Porto Maurizio, inventore della Via Crucis, salvatore del Colosseo.
È inutile che proviate a farmi gli auguri adesso, miei cari lettori, ipocriti, fratelli; il mio onomastico era il 6 novembre, San Leonardo abate di Limoges – e non se n’è ricordato nessuno. Questo Leonardo non è meno importante del primo, diciamo che gioca in tutt’altra categoria: è un predicatore francescano del Settecento, secolo finora colpevolmente snobbato da questa rubrica, come se per cent’anni non ci fossero stati santi interessanti. Non è decisamente così, però riflettete un attimo sul Settecento che conoscete, sul Settecento che avete studiato a scuola, o quello che poi vi è ricapitato sott’occhio al cinema o in tv. Non vi sembra anche voi di avere un buco? Il secolo dei Lumi, vi dicevano gli insegnanti. Sì ma gli illuministi a ben vedere erano una manciata di persone in tutt’Europa sparsi tra le corti e le caffetterie; ok, gli abbonati all’Encyclopédie erano parecchi di più, però il secolo senz’altro non è tutto lì. C’erano i libertini, questa è cosa nota, almeno un film o un libro di libertini lo abbiamo consumato. Poi verso la fine partono le rivoluzioni, e quelle le studiamo già con più interesse, ma fidatevi che se al liceo vi è capitato di saltare una cinquantina di pagine di Storia d’Italia, erano tutte tra Seicento e Settecento.
Soprattutto nella penisola sembra che non succeda nulla. E invece succedono tantissime cose, tra cui parecchie guerre che cambiano un po’ la cartina – prende forma tra l’altro il Regno di Sardegna – ma alla fine della fiera tutto cambia perché non cambi nulla, più o meno finché non arriva Napoleone. Qualche sovrano effettivamente legge Voltaire e si dà arie di principe illuminato, ma è quella crosta sottile della società che segue le mode: il Paese reale, come si chiama adesso, pende ancora dalle labbra dei predicatori, come ai tempi di Bernardino tre secoli prima. Leonardo di Porto Maurizio è uno di prima scelta, otterrà persino degli incarichi diplomatici. Ma preferiamo ricordarlo per averci dato una grossa mano a salvare il Colosseo, si fa per dire. Diciamo che senza di lui il Colosseo poteva arrivarci in uno stato ancor peggiore.
Un giorno il Colosseo (che poi si chiama Anfiteatro Flavio) andrà rifatto. Lo scrivo così, per abituarmi all’idea. Nulla dura in eterno, nemmeno i luoghi più sacri e appartati, e non è certo il caso di un’arena tirata su nel centro di Roma a scopi propagandistici. C’è chi dice che Vespasiano abbia voluto offrire al popolo quello che il dittatore precedente, Nerone, gli aveva tolto; secondo altri gli fu molto utile il bottino del saccheggio del tempio di Gerusalemme; impossibile non ricordare poi che fu lo stesso imperatore che mise una tassa sui gabinetti pubblici, che è poi il motivo per cui il suo nome è ancora sulla bocca di tutti duemila anni dopo. Poteva immaginarselo? Difficile, ai suoi tempi il passato non esisteva nella forma in cui esiste adesso. Esistevano miti, leggende, e pietre vecchie già un po’ dappertutto, ma Roma non aveva nemmeno compiuto mille anni: e 1930 anni dopo il suo anfiteatro è ancora più o meno lì. In ogni caso l’estate scorsa si è saputo che la curva sud pende di 40 cm., quasi quanto la Torre di Pisa. Un giorno o l’altro potrebbe venir giù, non sarebbe la fine del mondo – a meno che non abbia ragione Beda il Venerabile:
Finché starà in piedi il Colosseo, esisterà anche Roma;
quando cadrà il Colosseo, cadrà anche Roma;
quando cadrà Roma, cadrà anche il mondo.
Al tempo in cui Beda scriveva le sue storie, nell’ottavo secolo in una landa lontana – l’Inghilterra – il Colosseo se la cavava ancora abbastanza bene. Era adibito a necropoli o forse a fortezza (come il mausoleo di Adriano, diventato Castel Sant’Angelo). I gladiatori non ci giocavano più dal 400: a rovinare il divertimento era stato l’imperatore Onorio. I combattimenti contro gli animali, ugualmente sanguinosi (leoni e orsi, a volte aizzati contro condannati a morte) erano proseguiti per un altro secolo; poi l’anfiteatro aveva smesso di essere tale. La vera decadenza cominciò a partire dall’847, con un terremoto catastrofico, in seguito al quale il monumento fu declassato a cava di marmo. Seguono secoli oscuri, in cui il Colosseo diventa un palazzo, anzi parte di un palazzo della famiglia Frangipane. Ma anche questa destinazione d’uso non dura più di tanto, e l’emorragia di blocchi di travertino prosegue per tutto il Cinquecento (un secolo in cui il nuovo amore per la classicità non impedì ai pontefici di saccheggiarla a tutto spiano), e buona parte del Seicento. Poi le cose cominciarono lentamente a cambiare. Forse fu anche merito del turismo. L’unica forma di turismo di massa che esistesse a quel tempo: il pellegrinaggio, soprattutto in occasione dei giubilei.
Progressivamente divenne chiaro che ai pellegrini che arrivavano a Roma per ottenere l’indulgenza plenaria bisognava mostrare pure qualcosa del periodo antico, non si poteva smontare tutto per adornare Palazzo Barberini. Quel poco di anfiteatro rimasto continuava a essere una mole impressionante, bisognava trovare un modo per sfruttarla, però cristianamente. Del resto, se il cristianesimo era fiorito sul sangue dei martiri, quale suolo ne era più pregno di quello dell’anfiteatro, dove a migliaia erano stati sbranati dalle fiere sotto questo o quell’imperatore?
L’idea era fondata soltanto sulle antiche leggende; non c’era nessuna evidenza storica o archeologica di una simile pratica. Ci mise anche un po’ a passare. Le prime notizie di celebrazioni religiose nel Colosseo risalgono all’ultimo giubileo del Seicento (1675); settant’anni più tardi, Benedetto Quattordicesimo fece il salto di qualità, consacrando il Colosseo a Tutti i Martiri. Esatto, sì, il Colosseo diventò una chiesa. E meno male. Se l’idea fosse venuta un po’ prima, l’anfiteatro ci sarebbe arrivato in uno stato migliore: come il Pantheon, che chiesa lo era diventato quasi mille anni prima, e la differenza si vede: è l’unica cupola antica che ci è arrivata quasi intatta.
Consacrare un edificio è un’operazione delicata – specie se lo stesso edificio è stato in precedenza una cava di marmo, un luogo disabitato per coppiette, un castello, un cimitero, una plaza de bestias, un’arena di gladiatori. Bisogna in qualche modo resettare l’immaginario, sostituire 1700 anni di storia con qualcosa di altrettanto interessante, ma cosa? Papa Benedetto chiamò per l’occasione il miglior predicatore sulla piazza, Leonardo di Porto Maurizio, inventore di una nuova concezione di spettacolo religioso: la Via Crucis. Sacre rappresentazioni ne esistevano da secoli, ma quella standardizzata in quattordici stazioni, quella che vi ricorda immediatamente certe fresche sere primaverili, l’odore delle rose misto alla cera delle candele, quella l’ha inventata lui. Nel 1744 le quattordici stazioni diventarono quattordici edicole all’interno del Colosseo. Quattro anni più tardi a Napoli Carlo III di Borbone inviava l’ingegnere spagnolo Rocque Joaquin de Alcubierre a compiere qualche scavo alle pendici del Vesuvio, un po’ più a sud di Ercolano dove già si era trovato qualcosa d’interessante. Joaquin cercava l’antica Stabia, ma lì sotto avrebbe trovato (senza accorgersene davvero) qualche traccia di Pompei. Che c’entra con Leonardo di Porto Maurizio? Niente.
È solo interessante che sia vissuto proprio negli stessi anni in cui nasce l’archeologia moderna. L’interesse che porterà ben presto studiosi e artisti a Pompei è già tipico di quel Settecento che conosciamo noi, quello illuminista e scientifico; dai dipinti delle ville pompeiane nasce anche, è superfluo dirlo, lo stile neoclassico che i vari Canova e David avrebbero imposto in tutta Europa. La forza del neoclassico sta nel suo essere insieme antico e modernissimo: il segreto è nei fanghi di Pompei, da cui si poteva estrarre un ideale di bellezza vecchio di millesettecento anni come una cosa mai vista, inedita, come la scoperta di una civiltà extraterrestre.
Poche centinaia di chilometri più a nord, i ruderi romani non se l’erano cavata altrettanto bene. Nessun fango provvidenziale li aveva coperti: erano rimasti lì per tutto il medioevo, esposti all’incuria, ai terremoti, al piscio delle pecore e dei pastori. Per sfangare il medioevo il caro vecchio Anfiteatro Flavio le ha provate tutte: è stato cimitero ed è stato castello; senza che nessuno lo decidesse è spontaneamente diventato uno degli orti botanici più biodiversi del mondo; e per uno scorcio di secolo si è improvvisato anche basilica. Per inciso, la storia dei martiri divorati dalle belve nell’arena potrebbe davvero essere una bufala: non abbiamo nessuna prova che i cristiani venissero giustiziati così. È vero che gli schiavi giudicati colpevoli dei crimini peggiori potevano essere travestiti da eroi mitologici e finire sbranati da orsi e leoni nella tarda mattinata (quando gli spettatori più raffinati andavano a mangiare; a guardare l’intermezzo restava solo il popolino sgranocchiante); tra i condannati potrebbe anche esserci stato qualche cristiano, ma non lo sappiamo. Per fortuna che San Leonardo e il suo Papa ci credevano – o trovavano comodo crederci. Di lì a pochi anni l’archeologia si sarebbe reimpossessata anche di Roma, ma forse per il vecchio Flavio sarebbe stato troppo tardi.
Prima o poi sarà troppo tardi: nulla è per sempre, tantomeno una vecchia arena costruita per ospitare migliaia di spettatori e duelli all’ultimo sangue. Non è mica una piramide: è un monumento al chiasso, al divertimento, alla dissipazione, e prima o poi cederà al traffico, al turismo di massa, all’inquinamento. Ci sarà poi il problema di rifarlo, bisognerebbe cominciare a pensarci. Bisognerà inventare nuove leggende, i miti classici non ci bastano più, e anche le vie crucis settecentesche cominciano a segnare il tempo. Per esempio leggevo che ieri il sindaco Alemanno e sua moglie Isabella Rauti lo hanno illuminato contro la violenza sulle donne. Non sono sicurissimo di aver capito cosa significhi, in che modo l’illuminazione di un monumento possa avere una connessione con la violenza sulle donne, o in qualche modo rappresentare un modo di porsi il problema. Immagino che si tratti di una cosa postmoderna che non capisco, e non è detto che abbia un senso, ma almeno è un tentativo di inventare qualcosa di nuovo, perché qualcosa di nuovo prima o poi dovremo trovarlo, così non può mica durare per sempre. Sempre che non abbia ragione Beda.