Il filosofo di paglia
28 gennaio – San Tommaso d’Aquino, dottore della Chiesa (1225-1274).
Quando morì, presso l’abbazia di Fossanova, Tommaso aveva già smesso di essere il più grande filosofo del medioevo. La filosofia, la stessa scrittura, lo avevano abbandonato all’improvviso qualche mese prima, mentre officiava una messa nella chiesa di San Domenico a Napoli. Caduto in estasi, e forse anche in terra, Tommaso rifiutò di spiegare cosa gli era successo. A fra’ Reginaldo, l’inseparabile scrivano che attendeva di completare il terzo tomo della Summa Theologiae, disse che non poteva farci più niente, tutto quello che aveva pensato e dettato fino a quel momento gli sembrava paglia (mihi videtur ut palea). Nel poco tempo che gli restò da vivere, Tommaso si mosse come un involucro vuoto, sospeso per inerzia agli ordini dei superiori: la morte se lo prese sulla strada per Lione, dove si sarebbe tenuto un concilio per ridiscutere lo Scisma d’oriente. L’Aquinate, benché esaurito, non poteva assolutamente mancare: il Papa ci teneva.
Quando si pensa a un intellettuale del medioevo lo si immagina sempre con le grasse chiappe solidamente ancorate al seggio di uno scriptorium, rinchiuso confortevolmente in qualche monastero fuori del tempo: e invece il calendario di impegni di un personaggio come Tommaso avrebbe stroncato molti accademici dei nostri tempi (comodo fare i cosmopoliti coi Boeing 747: Tommaso andava e tornava dalla Francia allo Stato della Chiesa a dorso di mulo). In realtà se si pensa all’entità e alla complessità dei suoi impegni, tra beghe accademiche e politiche, c’è da stupirsi che sia arrivato in un qualche modo a 49 anni. È abbastanza improbabile che sia stato fatto avvelenare dal re di Napoli Carlo d’Angiò, anche se Dante ne era convinto: ad avvelenarlo fu semplicemente lo stress. Quando tutti ormai si aspettano da te l’opera definitiva, la summa che metta a posto Aristotele e il Vangelo, nel mentre che vai a Lione a sistemare gli ortodossi, e tu nel frattempo non ci credi più, ti si è rotto qualcosa dentro, tutto quello che hai scritto è paglia. E hai finito pure quella. Cosa vide Tommaso d’Aquino, che lo fece crollare come un fantoccio?
In questi casi – come nell’incidente di Paolo verso Damasco – gli anatomopatologi della domenica si possono sbizzarrire: crisi epilettica? ictus? Ma anche un calo di zuccheri, perché no. Estasi significa “uscire da sé stessi”: più che dal suo corpo, Tommaso forse riuscì per qualche istante a uscire dalla sua filosofia. Magari ebbe l’opportunità di guardare dall’alto il castello delle sue convinzioni, che andava cementando da anni con pazienza più certosina che domenicana, selezionando con attenzione i materiali di costruzione più solidi dalle rovine dei sistemi precedenti: un architrave ionico qua, una colonna romanica là, perfino qualche guglia mozaraba, tutto apparentemente armonico, tutto apparentemente resistente, e invece basta guardarlo da un qualsiasi altrove per non vedere che un castello di carta.
A me la filosofia ha sempre fatto un po’ paura, lo dico qui. Di un artista ci possono restare le opere, di uno scrittore le storie, di uno scienziato le scoperte o le ipotesi. Di tanti grandi filosofi – non studenti scioperati – gente che ha passato la vita a studiare e riflettere, mi sembra che ci resti soltanto la paglia. Chi legge Tommaso d’Aquino oggigiorno? Chi va oltre al bignamino del liceo, agli appunti con le freccine? Le sue tanto bistrattate Cinque Vie, chi le ha percorse veramente? Perché a leggerle sui libri di oggi, o su internet, sono formulate in un modo in cui le confuterebbe anche un blogger; ma Tommaso ci lavorò per anni e non era un imbecille. Non lo dico io, lo dice per esempio Charles Sanders Peirce, la cui opinione più di altre m’interessa, visto che la modificò. In un primo momento Peirce riteneva effettivamente Tommaso un imbecille, il classico scoliasta medievale che metteva “frettolosamente insieme male assortite porzioni di ricchezza altrui in una sconsiderata passione per l’autorità”. Poi cambiò idea. Magari semplicemente gli capitò di leggerlo. Forse la sua fissazione per il numero tre rimase intrigata dalla descrizione tomista della trinità: il Padre esce da sé stesso e pensa il Figlio, lo Spirito è la relazione di amore che il primo prova per il secondo… non ricorda da lontano il trittico peirceano di Oggetto, Segno e Interpretante? Scherzo, in realtà non sono sicuro di averlo mai davvero capito, Peirce. E sono sicuro di non avere mai capito davvero Tommaso.
Eppure almeno un intellettuale vivente che abbia studiato e apprezzato davvero Tommaso ce l’abbiamo. (Continua…)
Come dice a un certo punto il personaggio narrante nel Pendolo di Foucault: “uno che fa la tesi sulla sifilide finisce per amare anche la spirocheta pallida”. L’autore vero del Pendolo però non ha scritto una tesi sulla sifilide, bensì sul Problema estetico in Tommaso d’Aquino. E Tommaso è rimasto uno dei punti di riferimento di Umberto Eco, fino a Kant e l’ornitorinco e oltre.
Il fatto che in Italia ci sia almeno uno studioso serio di Tommaso – e sia un laico – dovrebbe creare qualche imbarazzo alla Chiesa, quell’istituzione che in teoria continua a basarsi sulla Summa Theologiae, ma in pratica non manda nessun tecnico preparato a controllare la cantine da secoli. Eco per la verità non ha mai avuto tanta voglia di litigare, però ogni tanto gli capita di mettere il dito sulla piaga, più per giocoso e accademico puntacazzismo che per cattiveria. Io non so francamente se senza di lui qualcuno si sarebbe accorto che la moderna dottrina dell’embrione va contro la posizione tradizionale, tomista, della Chiesa. Ovvero: questa idea che l’essere umano sia già un individuo completo dal concepimento, da dove arriva esattamente? Non si sa, ma è un’esplicita sconfessione di quello che dettava Tommaso. Con le parole dell’alessandrino:
La posizione di Tommaso (che nel corso dei secoli la Chiesa non ha mai espressamente negato, condannando anzi quella opposta di Tertulliano) è la seguente: i vegetali hanno anima vegetativa, che negli animali viene assorbita dall’anima sensitiva, mentre negli esseri umani queste due funzioni vengono assorbite dall’anima razionale, che è quella che rende l’uomo dotato di intelligenza e ne fa una persona come ‘sostanza individua di una natura razionale’. Tommaso ha una visione molto biologica della formazione del feto: Dio introduce l’anima solo quando il feto acquista, gradatamente, prima anima vegetativa e poi anima sensitiva. Solo a quel punto, in un corpo già formato, viene creata l’anima razionale (‘Summa Theologiae’, I, 90). L’embrione ha solo l’anima sensitiva (‘Summa Theologiae’, I, 76, 2 e I, 118, 2). Nella ‘Summa contra gentiles’ (II, 89) si dice che vi è una gradazione nella generazione, “a causa delle forme intermedie di cui viene dotato il feto dall’inizio sino alla sua forma finale”. Ed ecco perché nel Supplemento alla ‘Summa Theologiae’ (80, 4) si legge questa affermazione, che oggi suona rivoluzionaria: dopo il Giudizio Universale, quando i corpi dei morti risorgeranno affinché anche la nostra carne partecipi della gloria celeste (quando già secondo Agostino rivivranno nel pieno di una bellezza e completezza adulta non solo i nati morti ma, in forma umanamente perfetta, anche gli scherzi di natura, i mutilati, i concepiti senza braccia o senza occhi), a quella ‘risurrezione della carne’ non parteciperanno gli embrioni. In loro non era stata ancora infusa l’anima razionale, e pertanto non sono esseri umani.
Si può dire che la Chiesa, spesso in modo lento e sotterraneo, ha cambiato tante posizioni nel corso della sua storia che potrebbe avere cambiato anche questa. Ma è singolare che qui siamo di fronte alla tacita sconfessione non di una autorità qualsiasi, ma dell’Autorità per eccellenza, della colonna portante della teologia cattolica. […]
Conclusione: le attuali posizioni neofondamentalistiche cattoliche non solo sono di origine protestante (che sarebbe il meno) ma portano a un appiattimento del cristianesimo su posizioni insieme materialistiche e panteistiche, e su quelle forme di panpsichismo orientale per cui certi guru viaggiano con la garza sulla bocca per non uccidere micro-organismi respirando. Non sto pronunciando giudizi di merito su una questione certamente molto delicata. Sto rilevando una curiosità storico-culturale, un curioso ribaltamento di posizioni. Dev’essere l’influenza del New Age. (Bustina di Minerva del 15/3/2005)
Il fatto che la Chiesa romana sia meno tomista di quel che dice e crede non è necessariamente un male. Ovviamente io sarei il primo a rallegrarmi se alla luce delle Summae un pontefice decidesse di rivedere la posizione sull’aborto; d’altro canto è sempre Eco a notare come la teologia di Tommaso sia assolutamente inconciliabile con un elemento fondamentale della modernità: la teoria dell’evoluzione. Senza la quale è impossibile stare seriamente nella modernità: certo, ci sono Chiese che negano Darwin, ma finiscono per arroccarsi in un antiscientismo settario e a immaginare un universo creato 6000 anni fa con i fossili già al loro posto sottoterra. I cattolici non sono così. I cattolici trovano sempre un modo per girare intorno ai problemi. La Bibbia dice sette giorni? I cattolici inventano l’interpretazione allegorica per cui quei sette giorni possono anche alludere a periodi di milioni di anni, e oplà, Genesi 1,1 diventa il Big Bang. I cattolici sono riusciti in un qualche modo a far convivere Adamo ed Eva con l’evoluzionismo: gli è bastato lasciare Tommaso in cantina, per l’appunto.
Uno dei motivi per cui non riusciamo a capire Tommaso, neanche quando proviamo a leggerlo, è che lo scambiamo per un apologeta militante, uno che deve sforzarsi di dimostrare che Dio esiste, prima che le forze del Dubbio espugnino la cittadella della Ragione. È il motivo per cui puoi trovare le sue Cinque Vie sul sito dell’Unione Atei Agnostici Razionalisti, manco fossero cinque teoremi da confutare.
In realtà Tommaso non voleva esattamente dimostrare una tesi (Dio esiste). Lui cercava di spiegare le “vie” per cui un qualsiasi intelletto giungeva a una verità che giudicava autoevidente. Siccome credere in Dio, ai suoi tempi, era una cosa naturale, la cosa interessante per un filosofo era cercare di spiegare il perché della naturalezza con la quale tutti (cristiani e “gentili”) accettavano l’esistenza di Dio. Allo stesso modo in cui un grammatico studia le regole di una lingua che sa già parlare, che tutti sanno parlare sin da bambini, ecco: nei secoli di Tommaso credere in Dio era come dire mamma, papà, cacca: una cosa che succhiavi per così dire col latte materno. Oggi non è più così. A un certo punto qualcosa è cambiato: per la verità è stato un processo lento, con occasionali scossoni, una frattura di paradigma. Il risultato è che oggi il concetto di Dio ha cessato di essere intuitivo, ha smesso di essere accettato come naturale da miliardi di persone. Tra questi ve ne sono tanti che continuano a credere in Dio, ma è una scelta faticosa, che chiede uno sforzo, un investimento intellettuale ed emotivo. Tommaso non poteva saperlo: per lui ciò che l’uomo riteneva ovvio e naturale sarebbe sempre rimasto ovvio e naturale.
Oppure forse a un certo punto se ne rese conto. Era un intellettuale puro, passava il tempo a speculare, magari a un certo punto questa obiezione lo turbò. “Non si può andare all’infinito nella ricerca di un primo movente, o di una prima causa”, scriveva: e se invece si fosse potuto? E se l’universo fosse molto, molto più vasto di quei nove cieli di cristallo, e se ci fossero più cose in cielo e in terra che in tutti i nostri difettivi sillogismi, in tutte le nostre filosofie di cartapesta? Forse quel mattino, nella chiesa di San Domenico, Tommaso ebbe una visione delle cose a venire. Non della gloria dei cieli: ma del chiasso di una piazza moderna. Uscì dal suo corpo e si ritrovò davanti un bar coi tavolini, un’edicola, un altro negozio chiuso, i graffiti sulle saracinesche: furgoni, cassonetti della differenziata, miliardi di dettagli dissonanti sparsi per miliardi di minuscoli atomi nel vuoto di un universo in espansione, e nulla che rimandasse naturalmente a Dio. E pensò: meglio non dire nulla a Reginaldo.