L’evangelista fritto
27 dicembre – San Giovanni Evangelista (10?-100?)
Giovanni è il primo e l’ultimo. Primo degli apostoli di Gesù, dopo aver seguito per qualche tempo l’altro Giovanni, il Battista; ultimo a morire, dopo aver sperimentato il tentato martirio (a Roma provarono a friggerlo nell’olio), l’esilio, il delirio psichedelico dell’Apocalisse, e il declino fisico: negli ultimi suoi anni correva voce che non sarebbe morto prima del Giudizio Universale. Poi effettivamente morì, lasciandoci i due libri più enigmatici del Nuovo Testamento.
Il primo è il quarto Vangelo – qui si potrebbe aprire una parentesi sulla bizzarria di una religione, come il Cristianesimo, basata su un Annuncio (eu anghélion – Evangilium) di cui però non ci rimane una sola versione, come sarebbe opportuno quando si manifesta il Divino, ma tante, tutte un po’ discordanti tra loro: il che finisce per inoculare un germe di senso critico nel nucleo stesso della cristianità. La filologia, che con tanti difetti è già una scienza, l’hanno dovuta inventare gli stessi cristiani, per capire come fossero andate realmente le cose, e comunque non ci sono riusciti: ogni tentativo di riorganizzare la vita di Gesù in una sola narrazione coerente non deve aver funzionato, visto che già nel secondo secolo la Chiesa si ferma sui quattro Vangeli: quattro come i punti i cardinali, diceva Sant’Ireneo; come i piedi di un tavolino, aggiungo io, che comunque lo sistemi un po’ traballa. Dipende anche dalla superficie.
Di solito dondola sul lato Giovanni. Il suo Gesù, pur richiamando chiaramente quello degli altri tre cosiddetti sinottici, dice e fa cose piuttosto diverse. Quasi nessuna parabola, quei raccontini che in Luca Marco Matteo erano il fulcro di una predicazione molto concreta, rivolta anche agli umili. Il Gesù di Giovanni invece si spende in densi discorsi sulla sua natura divina e umana; a cominciare da quell’Inno al Logos che apre il Vangelo e che imbarazza i cristiani saltuari alla Messa di Natale: cos’è questo trattatello filosofico sul Verbo fatto Carne, perché non ci raccontate la storia del bimbo nella mangiatoia tra il bue e l’asino? Con Giovanni, l’aquila che può fissare il Sole, si capisce che non è più tempo di favole ai bambini. Il suo Vangelo è l’ultimo a essere stato composto (ma è il primo di cui ci restano tracce su un papiro) e risente già delle polemiche teologiche della fine del primo secolo: condanna gli adozionisti e ispira gli gnostici, se non ruba loro qualcosa. Poi c’è la questione dei miracoli. Giovanni li chiama segni e li mette in una luce diversa: nei sinottici Gesù guarisce chi crede in lui e risolve i problemi di chi ha già fede. Invece il Gesù di Giovanni cambia l’acqua in vino, risuscita Lazzaro, moltiplica pani e pesci, affinché la gente creda: addirittura dopo morto è disponibile a farsi mettere le dita addosso da Tommaso, l’apostolo scettico.
Un episodio indicativo della diversità di Giovanni è il perdono dell’adultera, il brano famosissimo in cui Gesù dice ai lapidatori “Chi non ha peccato scagli la prima pietra”: attualmente si trova nel quarto Vangelo, ma gli studiosi sono concordi nel ritenerlo spurio, una paginetta piegata e infilata alla bell’e meglio in un capitolo giovanneo, che come stile assomiglia piuttosto a Luca. Luca però era un vangelo per tutti, compresi coloro che avrebbero potuto equivocare l’episodio e considerarlo un’autorizzazione al meretricio, sia mai! Così a un certo punto l’episodio in Luca potrebbe essere stato censurato. Ma era comunque un meraviglioso brano di vangelo, e allora alla fine qualche manina non necessariamente santa l’ha messo lì, dov’è più difficile che qualche povero di spirito lo noti: tra i discorsi del Gesù di Giovanni.
Forse la differenza principale coi sinottici riguarda la Passione. Giovanni non è il solo evangelista a ricordare dettagli discordanti, ma è l’unico a dedicare ai fatti di Gerusalemme metà del suo libro. All’ultima cena Gesù lava i piedi agli apostoli e tiene un lungo discorso in cui ribadisce tutti i suoi insegnamenti, ma non spezza il pane: si limita a offrirne un pezzo a Giuda, dicendo “Fa’ quel che devi fare”, e in quel momento “Satana” entra nell’apostolo.
Di queste e altre differenze facciamo fatica a renderci conto: di solito il Gesù che impariamo a conoscere è un mix di sinottici e Giovanni. A Messa ogni anno si legge un sinottico diverso, e ogni tre anni si ricomincia da capo: Giovanni invece si legge tutti gli anni, un po’ ogni tanto, il prezzemolino per darsi un tono. Invece se si prova a leggere il Nuovo Testamento dall’inizio alla fine si resta frastornati: proprio quando più o meno ti sembra di aver raccolto tre deposizioni, con qualche dettaglio discordante ma tutto sommato coerenti, ecco che arriva Giovanni, che sostiene di essere un testimone oculare, e si ricorda tutt’altro. Siccome siamo nati scettici, e credere ci costa fatica (ne riparleremo), la prima conclusione è che Giovanni stia facendo fan fiction: il suo, invece di essere l’ultimo Vangelo, sarebbe il primo romanzo storico con Gesù protagonista: un racconto accurato e verosimile, con alcuni personaggi davvero ben tratteggiati (fantastico Ponzio Pilato, dice cinque cose e sono tutte memorabili: Sei tu il re dei Giudei? Quid est veritas? Costui o Barabba? Ecce Homo! Quel che ho scritto ho scritto), composto su misura per un pubblico del Secondo Secolo, più esigente di quello delle generazioni precedenti che si contentavano di parabole. In alcune pagine, come nella resurrezione di Lazzaro, si ha l’impressione di trovarsi davanti a un Gesù tridimensionale, non più un guru piovuto dal deserto: un uomo, con amici da consolare e perfino amiche – ecco, troppo bello per essere vero. D’altro canto, se Giovanni fosse un romanziere, avrebbe pure dovuto attingere informazioni su Gesù: e allora perché non usa quasi mai i sinottici, neanche per stravolgerli? Anzi è quasi come se non li conoscesse. Ma se non li aveva presente, come faceva a conoscere la storia di Gesù?
Alla fine l’ipotesi originale rimane una delle più sensate: il quarto Vangelo è diverso dagli altri tre perché riflette la predicazione di un testimone oculare – che però è rimasto a lungo isolato dagli altri tre (in esilio a Patmos?), e ha finito per rimuginare un Gesù molto diverso da quello, per dire, di Matteo, che era pure apostolo quanto lui. Capita a tutti i fratelli di farsi, negli anni, un’immagine diversa dello stesso padre: quello dice una cosa e a distanza di anni loro si ricordano chi un dettaglio, chi un discorso, chi il pane, chi il vino, chi nulla. Tutto giustissimo, ma lo Spirito Santo non sarebbe dovuto intervenire a spianare i malintesi? Sì, ma forse ci avrebbe tolto il piacere dell’indagine: io preferisco tenermi un Dio che autorizza versioni discordanti delle sue avventure, un invito quasi esplicito a non fidarsi al 100% di nessuna rivelazione. In ogni caso quello che ci è arrivato sotto forma di Vangelo secondo Giovanni sarebbe la collazione un po’ disordinata di due testi più antichi, il Vangelo dei “segni”, i miracoli appunto; e la Passione, più altre pagine vaganti, come l’Inno al Logos: sarebbe l’emanazione della comunità cristiana di Efeso, grande città dell’Asia Minore in cui Giovanni avrebbe predicato prima e dopo la tentata frittura e l’esilio a Patmos. Gli efesini mantennero, come Giovanni, delle curiose differenze: continuarono a festeggiare la Pasqua nella data degli ebrei anche dopo che furono minacciati di scomunica.
A Patmos poi Giovanni avrebbe avuto la famosa rivelazione, che in greco si dice anche Apocalisse, e terrorizzava i nostri sogni di cresimandi: proprio quando il Nuovo Testamento sembra volgere al termine, con una serie di lettere letterine e bigliettini augurali in cui si ribadisce che Gesù è buono e ci ha salvato dai peccati… ecco che arriva l’ultimo libro e ci risprofonda nell’immaginario delirante dei profeti più oscuri: chiunque l’abbia scritta davvero aveva più in mente Ezechiele o Daniele che il buon pastore dei Vangeli. Rimane un libro fondamentale per l’immaginario cristiano moderno: i quattro cavalieri, i sette sigilli, il numero 666 e soprattutto la donna gravida che calpesta un serpente hanno popolato incubi e visioni di santi, beati e semplici lettori. In realtà, a calarla nel suo contesto, l’Apocalisse non è che l’esempio più fortunato di una letteratura profetica che in quei secoli era molto diffusa (c’era l’apocalisse di Pietro, di Paolo, di Maria, eccetera, tutte escluse dal canone). Gran parte delle visioni che il lettore moderno trova orrorifiche sono allegorie che l’antico lettore avrebbe saputo interpretare senza battere ciglio: quando la tal bestia ha “sette occhi” (brrr) significa semplicemente che riesce a vedere molto più in là di noi; aquila angelo toro e leone rappresenterebbero le quattro costellazioni che indicano i punti cardinali nei solstizi e negli equinozi.
Persino il senso del titolo ci è sfuggito: per noi è ormai sinonimo di fine del mondo, ma oggi i teologi preferiscono considerare il libro come un’esortazione ai cristiani del primo secolo a tener duro nei periodi difficili. D’altro canto in un qualche modo bisogna pur spiegare come sia possibile che il finale della Bibbia riveli un regno di Mille anni che ancora non s’è visto nel 2012. Alcuni continuano a spostare la Rivelazione un po’ più in là: i Testimoni di Geova leggono il numero 666 in tutti i codici a barre, mentre nel ciclo di romanzi fanta-cristiani protestanti più letti in America, Left Behind, la Bestia che parla tutte le lingue del mondo fa il segretario generale dell’ONU. I cattolici si sono rassegnati, o forse più semplicemente hanno messo su pancia: non si può predicare che la fine dei tempi è vicina e poi chiedere tutti gli anni l’otto per mille come se niente fosse. Così da racconto della fine dei tempi l’Apocalisse diventa una cronaca allucinata delle vicende della Chiesa e dell’Impero nel secondo secolo: la Bestia che pretende di tatuare tutti i suoi sudditi sarebbe l’imperatore Domiziano, un banale persecutore di cristiani, neanche particolarmente famigerato. C’è persino una corrente di studiosi che escludono che Gesù fosse un predicatore escatologico: parlava di un Regno dei Cieli, sì, ma non di un’imminente fine dei tempi. Eppure i cristiani delle prime generazioni, nella fine del mondo, ci credevano.
Lo si capisce dal fatto che non pensassero agli eredi: l’abitudine a mettere i beni in comune, le esortazioni di Paolo a lasciar perdere la carne – una bella differenza con la prolificità dei cattolici di adesso. È chiaro che vivevano nell’attesa della fine imminente: in questo contesto si riesce anche a capire la leggenda secondo cui Giovanni non sarebbe mai morto. Una voce del genere non può esser nata che quando Giovanni era già vecchio, ma evidentemente ancora arzillo. Sopravvissuto alla frittura miracolosa e all’esilio, probabilmente a un certo punto si ritrovò a essere l’ultimo testimone oculare in vita, e questo gli permise di acconciare le cose a modo suo: nel suo Vangelo accetta il ruolo di preminenza conferito a Pietro, ma fa capire in vari modi di essere stato il favorito del capo: di essere stato uno dei primi due a seguirlo, di aver tenuto la testa nel suo grembo mentre Gesù annunciava il tradimento, di aver avuto da Gesù stesso in punto di morte l’incarico di badare alla Madre (o era la Madre che era incaricata di pensare al ragazzino, o entrambe le cose) di aver visto la tomba vuota insieme a Pietro, e di aver creduto forse prima di lui. Però, con una modestia molto letteraria, rinuncia a firmarsi col suo nome, e per tutto il Vangelo si fa chiamare “il discepolo che Gesù amava”: perifrasi che qualcuno ha voluto leggere maliziosamente (c’è tutta una corrente gnostica secondo cui in realtà il Vangelo lo ha scritto Maria Maddalena). Ecco, alla fine del quarto Vangelo c’è un’appendice commovente, in cui Gesù appare di nuovo agli apostoli in riva al lago di Tiberiade, pesca e cena con loro, e chiede a Pietro se gli vuole bene. Glielo chiede tre volte, un modo molto delicato e giovanneo per rinfacciargli l’episodio del canto del gallo. Pietro ci resta male, e invece Gesù gli dice “Seguimi”: l’episodio serve a ribadire la sua posizione di capofila degli apostoli. Dopo di lui però c’è subito “il discepolo che Gesù amava”: Pietro si volta, forse preoccupato per il destino del ragazzo, e chiede a Gesù che cosa ne sarebbe stato (21,22-23):
Gesù gli rispose: «Se voglio che rimanga finché io venga, che t’importa? Tu, seguimi». Per questo motivo si sparse tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto; Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che rimanga finché io venga, che t’importa?».
Io ovviamente da bambino questi versetti li interpretavo nel modo più fantastico, immaginandomi un Giovanni in giro sulla terra ancora oggi, ad aspettare le trombe e i sigilli un po’ in ritardo sulla tabella di marcia. Ora che comincio a farmi bianco anch’io, mi sento più attratto da un’altra leggenda, che mostra l’apostolo ormai decrepito a Efeso, un monumento vivente degli anni ruggenti di Gesù, che però non riesce più a camminare, né quasi a parlare. A chiunque viene a visitarlo ripete soltanto: Figlioli, amatevi gli uni gli altri. E a chi gli chiede perché sempre la stessa frase, risponde: Perché è precetto del Signore: basta questo. Tutto il Vangelo di Giovanni in una frase sola: Giovanni che effettivamente non muore, ma invecchiando si riduce a un versetto. Non è male, c’è chi muore ripetendo affannosamente il Cinque Maggio di Manzoni perché è la cosa che a scuola, la maledetta scuola gentiliana, gli hanno inculcato con più forza. Ecco, potendo scegliere, io preferirei il versetto di Giovanni. Forse dovrei cominciare a ripeterlo ossessivamente prima di addormentarmi, e appena alzato. Un fioretto per l’anno nuovo.