Di sciabole e fioretti
Ovvero: se fossi in Salvini non dormirei sonni tranquilli
L’unico dato che mi ha colpito veramente di queste europee è la conferma definitiva che in quest’epoca i voti si spostano a milioni di qua e di là in una specie di ottovolante a cui non siamo per niente abituati. Il 40% o più dei consensi presi dalla DC nelle prime tre legislature della Repubblica apparivano, agli occhi di tutti, predittivi del fatto che lo scudo crociato avrebbe governato da allora per almeno altri 20 anni: con quei voti era ragionevole pensare che si potesse stabilire un sistema di potere duraturo e stabile.
Oggi non è più così: il Pd ha preso il 41% nel 2014 e si è trovato al 19% quattro anni dopo, il M5S ha preso il 32% alle politiche dell’anno scorso e oggi sta sotto al PD di un anno fa, la Lega che – mi ricordo – occupava nella scorsa legislatura non più di una dozzina di scranni nell’aula di Montecitorio, oggi è al 34% e se si fosse votato ieri per le politiche invece che per le europee le sarebbero toccati 250 deputati o forse più. Buon per lei, meno per l’Italia, ma questo appunto non deve assolutamente far pensare che Salvini si sia trasformato in Amintore Fanfani né che il dominio leghista della scena politica sia garantito per i decenni a venire.
La politica è mobile qual piuma al vento, e come nell’aria del Rigoletto il suo accento e il suo pensiero cambiano assai velocemente: il cammino del governo si farà molto accidentato, le tensioni che attraverseranno il M5S produrranno possenti spinte centrifughe, il posto di Conte pare a occhio e croce meno solido di una palafitta piantata in una palude fangosa, le decisioni difficili da prendere saranno moltissime – a cominciare dalla prossima legge di bilancio con le sue famose clausole di Damocle – e vedremo se Salvini sarà capace di conservare lo straordinario consenso che le elezioni di ieri gli hanno messo nelle mani. Capiremo insomma se saprà far meglio di Renzi e Di Maio quanto a gestione del successo o se anche lui non sarà destinato a una precipitosa discesa giù per le montagne russe (il fatto che siano russe potrebbe effettivamente avvantaggiarlo…) della politica nostrana.
A dati elettorali acquisiti mi sono chiesto dunque cosa avessero in comune il PD del 2014, il M5S del 2018 e la Lega del 2019. Cosa abbia fatto in modo che ben tre formazioni politiche diverse si siano trovate, nel breve volgere di 5 anni, ad avere in mano, in modo apparentemente saldissimo, il pallino del gioco politico nazionale. E, di conseguenza, se il PD oggi abbia potenzialmente la capacità e i requisiti necessari per ritrovarsi al prossimo giro al posto in cui era 5 anni fa e in cui si trova la Lega oggi.
Comincio dalla fine. La risposta mi pare purtroppo negativa. Dal punto di vista del marketing, capisco bene la soddisfazione dei colleghi – a partire dall’intervista del segretario Zingaretti su Repubblica di oggi – che hanno commentato il discreto risultato del Partito, del quale peraltro sono stato molto contento. Ma la verità è che il 22,69% è un risultato che gli anglosassoni definirebbero “evolutionary” rispetto a un contesto nel quale le cose cambiano in modo “revolutionary”. I capovolgimenti di fronte a cui abbiamo assistito procedono insomma con una forza che non prevede tanto progressi graduali, quanto la capacità di mettere in piedi una proposta che per natura, energia e ampiezza produca una specie di esplosione del consenso. Rapidissima a crearsi, e quindi a rischio di spegnersi con la medesima rapidità.
È come se l’elettorato si muovesse come un enorme banco di pesci (o uno stormo di migliaia di volatili, di quelli capaci di oscurare il sole) in fremente attesa di identificare un capo da seguire simultaneamente. In un certo senso possiamo dire che a turno Renzi, Di Maio e Salvini hanno saputo parlare a tutti gli italiani, o quanto meno a una grande maggioranza di essi, dando loro un messaggio la cui prima caratteristica dovrebbe essere molto familiare a chiunque abbia mai bazzicato il PD: la famosa “vocazione maggioritaria”.
Indipendentemente dal sistema elettorale pro tempore vigente, Renzi, Di Maio e Salvini hanno a turno parlato a tutti, non soltanto alla propria parte, riuscendo a portarsi dietro una bella fetta di Paese. Non hanno discusso di alleanze e di aritmetiche: nessuno di loro si è posto mai il problema o ha tenuto a specificare con quali pezzettini della propria area di riferimento si sarebbe alleato al fine di raggiungere il fatidico 50% dei consensi. Ma tutti e tre hanno espresso una visione capace di attrarre consenso molto al di là del proprio elettorato: così grande da avvicinarli a un livello di rappresentatività tale da portarli a governare il Paese in sostanziale autonomia e a imprimere una svolta culturale – di immagine, di linguaggio – all’Italia intera. Salvini è addirittura riuscito a passare nello spazio di pochi anni dal 5 o 6% al 17%, e poi in poche settimane o mesi a raddoppiare il proprio consenso fino al 34%, il che significa che il suo elettorato originario rappresenta una sparuta minoranza di coloro che lo sostengono oggi: possiamo dire che l’elettorato di Matteo Salvini si esprime numericamente in multipli dell’elettorato storico della Lega.
Per fare tutto questo, per fare in modo che il nostro enorme banco di pesci ci segua, c’è bisogno evidentemente di un pesce che abbia le caratteristiche del capo. È fuori discussione che a loro modo, tanto Renzi che Di Maio che Salvini siano personaggi che hanno incarnato un ideale di capo carismatico. Diversi nello stile, certamente disomogenei quanto a solidità e spessore, ma certamente tutte personalità difficili da ignorare: lo vediamo anche nell’influenza che Renzi continua a esercitare senza soluzione di continuità, nella somma irritazione dei suoi denigratori, sul PD. Se Renzi parla il problema è ciò che ha detto, se tace il problema è ciò che non ha detto. L’accoppiata Renzi-Calenda (un ex leader e il candidato di un’altra circoscrizione) è stata la protagonista di un evento a Milano lunedì 20 maggio che ha surclassato per presenze ed entusiasmo la chiusura ufficiale che si è tenuta venerdì 24 pomeriggio in un’atmosfera, diciamolo, abbastanza sotto tono nonostante le presenze prestigiose sul palco allestito all’Arco della Pace.
Questo per dire che se si vuole tornare a vincere ci vuole una leadership che sia riconosciuta come tale dai propri elettori e soprattutto da coloro che votano normalmente per un altro partito. Per essere chiari, nel 2014 c’era un sacco di gente che diceva “Non ho mai votato per il PD, ma ora che c’è Renzi lo voto”, così come oggi c’è un sacco di gente che non aveva mai votato Lega e che vota per Alberto da Giussano a causa (dovrei dire “per merito”, ma non mi riesce facile) di Salvini. Per me che ho passato in Puglia tutti gli anni della mia infanzia e adolescenza è tuttora incredibile pensare che al Mezzogiorno ci sia gente che possa votare per la Lega, dopo tutta la merda (scusate il francesismo) che i leghisti hanno buttato sulla gente del Sud e che non hanno mai ufficialmente rinnegato. O pensate alla vicenda dei 49 milioni: che ci sia stata un’appropriazione indebita è accertato dal fatto che si sia accettato di restituirli, se pure in 80 anni di comode rate. Eppure, nonostante questo, il fatto è stato loro perdonato. O pensate a Di Maio & soci, evidentemente privi di qualsiasi competenza per fare il lavoro che fanno oggi. Eppure quanti italiani sono stati disposti a passarci sopra a dire: “Ma sì, diamo a questi ‘ragazzi’ la possibilità di provarci!”?
Donald Trump, durante la campagna per la Casa Bianca, ebbe modo di dire che gli americani lo avrebbero eletto Presidente anche se fosse sceso sulla quinta strada armato fino ai denti e avesse fatto fuoco sui passanti. Ecco, ci vuole una leadership così. Irresistibile per gli elettori degli altri, ancor più che per i propri. Basti vedere cosa sta succedendo proprio mentre scrivo: mentre procede lo spoglio delle comunali scopriamo che, proprio nello stesso momento in cui l’elettorato faceva trionfare Salvini, lo stesso elettorato confermava Sindaci, al primo turno e con percentuali bulgare, Dario Nardella a Firenze, Giorgio Gori a Bergamo, Antonio Decaro a Bari, Matteo Ricci a Pesaro e Matteo Biffoni a Prato (bravissimi tutti!). Chissà quanto voto disgiunto, quanti elettori leghisti a Bergamo o grillini a Bari hanno votato per il sindaco uscente! A conferma che con una leadership forte e capace di parlare a tutti, anche e soprattutto agli avversari (come quella di un Nardella di un Gori o di un Decaro), si può vincere anche nella più avversa delle condizioni.
Un altro ingrediente che mi pare indispensabile è la capacità di dare l’impressione di essere esterni al sistema, non compromessi con l’establishment. Di essere in un certo senso “nuovi”. Anche in questo senso questo consenso così volatile mi pare rivoluzionario, perché la sensazione è che gli elettori vogliano in questa fase soprattutto un cambiamento, un novità purchessia. Così è stato per Renzi nella sua fase “rottamatore”, così per Di Maio leader di un movimento iconoclasta: entrambi hanno perso quando l’elettorato a torto o a ragione li ha percepiti come parte integrante dell’establishment, quando la necessità e la fatica di governare – e il compromesso che giocoforza ne deriva – ha attenuato la loro spinta rivoluzionaria. Di Maio ha perso perché (giustamente, secondo me) non ha chiuso l’ILVA e non ha fermato la TAP e perché – paradossalmente e meno giustamente – ha salvato il suo alleato Salvini da un processo penale. Poteva fare diversamente? Probabilmente no, diamogli anche il beneficio del dubbio, ma a quel punto è diventato egli stesso parte dell’establishment da abbattere e la medesima mannaia che aveva promesso ad altri gli è caduta inesorabilmente sul collo.
Poi ci vuole un messaggio. Chiaro, semplice, inequivoco. Anche politicamente scorretto, se necessario. Scomodo. A prova di bambino, anche un poco scostumato. E strategico, non meramente programmatico. Visionario. Io credo che parte della responsabilità della sconfitta del PD sia stata quella di passare dalla campagna della “rottamazione” nel 2014 ai “100 punti programmatici” nel 2018. Chi materialmente se li può ricordare 100 punti programmatici? Cosa ti resta in mente di ciò che uno vuol fare davvero, di ciò che uno è, se ci vogliono cento punti per descriverlo? Salvini con alcuni messaggi che a me hanno letteralmente fatto venire il voltastomaco (dai porti chiusi al disprezzo per il 25 aprile, dall’uso propagandistico del Viminale a quello blasfemo del rosario) si è fatto capire. Alcuni lo hanno votato per quello, altri lo hanno votato nonostante quello, alla fine sia i primi che i secondi hanno votato per lui. Aggiungo che nessuno dei suoi lo ha mai contraddetto. Avete sentito per caso una parola di Zaia o di Maroni contro le intemerate salviniane? Nulla, silenzio. Bravi: tutto il contrario di quello che è successo da altre parti.
Un’ultimissima cosa. Ci vuole anche una poderosa macchina da guerra in rete. Però attenzione. Si tratta di condizione necessaria ma certamente non sufficiente. Certo, aver avuto milioni di euro da dedicare a questo sforzo è stato un grande vantaggio e, rispetto a cinque anni fa, si tratta di qualcosa di cui oggi non si può fare assolutamente a meno. Ma una macchina per la propaganda, per quanto fantasmagorica, non serve a nulla se non hai qualcuno e qualcosa da propagandare. Quindi, giusto stare sulla rete e starci molto bene, dedicando al web le migliori professionalità e fondi sostanziosi, ma se non hai un front man e un messaggio all’altezza della situazione, la rete a mio avviso non può servire a risolverti il problema.
La mia sensazione, comunque, è che il voto di ieri – in Italia e in Europa – sia destinato a sconvolgere gli equilibri che abbiamo conosciuto. Ogni Paese ha espresso personalità, sfide e panorami politici anche molto innovativi rispetto allo status quo. In Italia a me pare che si sia prodotto un enorme buco al centro del panorama politico e che l’incapacità di movimenti come +Europa o i Verdi di raggiungere il quorum abbia lasciato amplissimi settori della nostra opinione pubblica privi di rappresentanza e dunque fuori da quello stormo che ha scelto di mettersi al seguito della Lega.
Fossi Salvini, insomma, non dormirei sonni tranquilli: come abbiamo detto il consenso che cresce così rapidamente, rapidamente rischia di consumarsi e il seguito popolare ha dimostrato più volte di essere pronto a seguire un altro capobranco ove ne ricorrano le condizioni.
Come parlamentare e dirigente politico pro-tempore penso che chi si trova a esprimere nelle sedi istituzionali le istanze del mondo democratico, umanista, europeista e progressista di questo paese dovrebbe però cominciare a pensare a una linea politica che abbia caratteristiche non soltanto evolutive, di semplice allargamento di una coalizione come sembra indicare l’attuale leadership del PD, ma quelle rivoluzionarie che ho descritto. Non è, si badi bene, una questione di contenitori – se ci pensiamo la Lega ha saputo rinnovarsi radicalmente, diventare una cosa incommensurabilmente più larga e completamente nuova, senza toccare minimamente le sue strutture e i suoi simboli – ma di contenuti.
Se si vogliono sconfiggere il populismo, il nazionalismo e l’estrema destra che abbiamo visto trionfare nelle urne a queste europee, bisognerà dar loro una spallata. Tirar di sciabola, non di fioretto. Sapendo che in questo modo, come la storia ci ha dimostrato di recente, ribaltare il 3-0 dell’andata si può.