Elogio della politica
Pensieri da 25 aprile
Quanto vale la libertà? Alla fine la domanda da porsi è semplicemente questa.
La libertà c’è o non c’è, non ci sono vie di mezzo.
La libertà è una di quelle cose che si notano di più quando non ci sono che quando ci sono: è più facile dire cosa non puoi fare quando l’hai persa che ciò che puoi fare quando ce l’hai.
Forse è per questo che sembra contare meno ora che c’è. Ora che l’abbiamo data, dopo sette decenni di democrazia, in un certo senso per scontata.
Sono da poco più di un anno un parlamentare di opposizione. Cosa fa esattamente un parlamentare di opposizione? In un certo senso la sua funzione è proprio quella di sperimentare la libertà, di testarla, di spingerla sempre un po’ più avanti, un po’ più in là. Il parlamentare di opposizione non “fa” in senso materiale, non contribuisce direttamente a creare il cambiamento intorno a sé (quello è, o dovrebbe essere, il compito di chi ha i numeri per governare): quello che noi facciamo e siamo, dall’opposizione, è il controllo e la critica di chi comanda.
Chi è all’opposizione, oggi come ieri, si alza in aula e sferza il potere; realizza concretamente, con la propria voce, la libertà di parola, la libertà di dissentire, il diritto di essere e rappresentare liberamente le idee, le tesi e le istanze di chi non è d’accordo, di chi è minoranza in quell’aula e nel Paese.
Sono oggi un parlamentare di opposizione e da qualche parte nell’aula dove lavoro e passo la maggior parte del mio tempo, in uno dei seggi – non so quale, potrebbe essere anche il mio o quello accanto a me, ci penso di frequente – è stato seduto Giacomo Matteotti che il 10 giugno del 1924 era atteso in aula per un importante discorso. La differenza tra chi fu seduto a Montecitorio in quel tempo tra i banchi dell’opposizione e noi che ci stiamo seduti oggi è che lui un giorno in quell’aula non tornò a sedersi. Fu preso, massacrato di botte e ucciso.
L’assenza di libertà è dunque, per esempio, essere ammazzati per le proprie idee. Questo lo si vede a occhio nudo. Il suo contrario, la libertà, è dunque non dover morire per difenderle, come accade oggi. Ma questo si vede meno. Perché ci pare ovvio, scontato, acquisito per sempre. Ma così non è, non sempre è stato così, non è detto che sia così in futuro se non lavoriamo perché così resti.
Il fatto è che questa definizione così visibile solo in negativo alla lunga può diventare difficile da sostenere: ma cosa saranno mai queste idee per le quali si può anche morire? Ma non sarà forse un po’ esagerato morire per delle idee? Non sarà che chi è disponibile a morire per delle idee forse non ha problemi più concreti di cui occuparsi? E non sarà forse un lusso questa libertà, una cosa che interessa soltanto a chi se la può permettere? Se non ho pane sulla mia tavola, cosa diavolo me ne faccio di questa libertà?
Questa è l’arma dei fascisti di ieri e di oggi, il messaggio suadente di chi si offre di prendertela, la libertà, e in cambio occuparsi di te. Liberarti – liberarti! – finalmente dal bisogno, dalle preoccupazioni. Sarai tranquillo e felice. Sanno benissimo che darla via, la libertà, quando ce l’hai non pare un gran sacrificio. Lo dicevo: della libertà e di quanto sia importante, di quanto sia vitale, ti accorgi soprattutto quando non c’è. Quando c’è, l’idea di scambiarla con qualcosa di più concreto può sembrare un’opzione sensata, praticabile.
Di fatto chi usa questa libertà lo fa soprattutto per rompere le scatole, non è vero? Qui si sta lavorando per rimettere a posto il Paese, per restituire il benessere a quelli come noi e finalmente tagliare tutti i privilegi di quelli diversi da noi, quelli che vengono da fuori e ci tolgono il lavoro, ai disfattisti che si assoggettano agli interessi di paesi più forti e a quelli delle lobby, a quelli che hanno strane idee e voglio farci abbandonare i pilastri della nostra società: a cosa serve questa libertà se non a utilizzarla per contestare il nostro Dio, la nostra Patria e la nostra Famiglia? Alla fine, invece di usare questa “libertà”, si rimbocchino le mani e smettano di disturbare il manovratore che finalmente si occupa di noi e del nostro popolo.
Eh sì, perché poi alla fine la libertà serve in fondo a dire che non esiste un solo popolo, perché la libertà è sì un bene collettivo, che esiste solo se appartiene a tutti, ma di cui si fa uso in modo rigorosamente individuale. Siamo liberi solo se ciascuno di noi – una a una, uno a uno – ha diritto ad avere un’idea diversa, se ogni minoranza è tutelata indipendentemente dalla sua dimensione, giù giù fino a quella individuale. In uno Stato democratico ci si fa carico e si assicura il benessere anche di minoranza piccole e piccolissime, e anzi come ha detto qualcuno la salute di una democrazia si misura proprio da quanto tiene conto e si cura delle proprie minoranze.
Quando invece il popolo si fa uno, la libertà non serve più. C’è il benessere di un popolo a cui badare, la volontà di quel popolo da realizzare, l’interesse di quel popolo da perseguire. E se il popolo è uno solo, basta soltanto un uomo a interpretarne volontà, bisogni e aspirazioni. Non servono i parlamenti (“aule sorde e grigie”, secondo qualcuno) dove idee diverse si affermano e si incontrano per trovare un punto di mediazione. Non serve la politica, basta un solo leader a esprimere e mettere in pratica “il bene” quel popolo. E chi mai si opponesse a quel disegno sarebbe, nemmeno a dirlo, un “nemico del popolo” da eliminare per la minaccia che rappresenta.
Per questo nella giornata di celebrazione di ieri la prima cosa da ricordare è che la libertà si sostanzia nella democrazia e che la democrazia si esercita solo con la politica.
Il 25 aprile è stato sconfitto il fascismo – e cioè l’idea di uomo solo al comando di un solo popolo – e si è affermata l’idea che il popolo è un concetto plurale. Che le idee sono tante e tutte degne di essere sostenute e rappresentate. Che il popolo è fatto di diversità e di punti di vista anche lontanissimi e che nessuno può mai arrogarsi il potere di parlare per tutti: siano i “sessanta milioni di italiani” di Salvini o i “cittadini” di Di Maio & co.
Non è un concetto per niente scontato. In un momento in cui la democrazia rappresentativa è evidentemente sotto attacco, anche e forse soprattutto nel nostro Paese, bisogna difendere con forza la politica. Non cadere nel tranello per cui alla cattiva politica si risponde non con quella buona ma con l’assenza della medesima.
La grande truffa della democrazia diretta, l’umiliazione continua del parlamento e delle sue funzioni, la narrativa per cui il palazzo non rappresenta il Paese ma gli si contrappone come un corpo estraneo e parassitario, sono tutti espedienti che servono a spostare la sovranità popolare dalle Camere a un altro posto.
Quale sia questo posto alla fine nemmeno importa saperlo, perché alla fine è solo nelle Camere che si rappresenta in modo plastico la pluralità dei colori e delle opinioni degli italiani, e solo nelle Camere si può capire che la voce del popolo o è corale o non è. O è diversificata e composita o serve solo a giustificare una qualche forma, più o meno sofisticata, di tirannia.