Una legislatura e una vita
Essere un parlamentare della Repubblica è stato un onore e un privilegio. Una di quelle cose che quando vai in pensione, come si diceva un tempo, “potrai raccontare ai nipotini”. Aver potuto sedere nell’aula di Matteotti, di De Gasperi, di Berlinguer. La stessa che ha visto cose terribili e storiche per il nostro Paese, l’aula sorda e grigia di Mussolini e l’aula del voto finale della Costituente. Quella dove irruppe la notizia del rapimento di Aldo Moro, ma anche quella in cui si sono votati il nuovo diritto di famiglia e la legge sul divorzio.
Ho passato 5 anni in quell’aula. I primi tre in modo molto assiduo: da parlamentare senza altri particolari incarichi il primo anno e poi da sottosegretario ai rapporti con il Parlamento il secondo e il terzo. In quell’aula ti passa la vita: mentre ero fisicamente seduto al mio posto nel terzo spicchio da sinistra mi arrivò la notizia della morte di mio padre e, dopo pochi mesi, quella di Alessandra, la mia migliore amica. Ho stretto in aula amicizie che dureranno per sempre, politica o meno: con Caterina Pes, “la mia compagna di banco”, nei lunghi tempi morti ci siamo raccontati l’esistenza intera.
Ho partecipato all’elezione di due presidenti della Repubblica, ho votato la fiducia a tre governi, ho contribuito ad approvare una montagna di leggi che mi fanno dire con serenità d’animo che abbiamo fatto dell’Italia di oggi una comunità più inclusiva e più rispettosa di quella del 2013: il biotestamento, la legge sugli sprechi alimentari, la legge sul dopo di noi, quella sull’autismo, la legge che combatte il caporalato, il divorzio breve, il divieto delle dimissioni in bianco, le norme contro i femminicidi.
Abbiamo approvato per tre volte a maggioranza assoluta (e tre volte lo ha fatto il Senato) una riforma costituzionale coraggiosa e pragmatica, che avrebbe reso il nostro paese a un tempo più stabile e più efficiente. Riforma poi presa a cannonate, senza un minimo di pudore, da coloro che dopo averla personalmente votata in aula hanno raccomandato ai propri elettori di non sostenerla. Così si sancisce l’inutilità della politica, la sua umiliazione. È un debito che lasciamo collettivamente sulle spalle delle future generazioni, che erediteranno le conseguenze di decisioni che nei prossimi anni prenderemo in modo meno lineare e con minore responsabilità di quanto avremmo fatto nel nuovo sistema: un quadro politico meno chiaro produrrà decisioni meno coerenti, questo è un mero dato di fatto.
In quell’aula ho imparato quella che io chiamo “la fatica del riformismo”, l’ascolto dell’avversario, la ricerca del compromesso e il prezzo che ne deriva. “Il contrario del compromesso”, scrisse – più o meno – Amos Oz, “non è l’integrità, ma l’integralismo”. Le leggi diventano tali quando trovi in aula i voti per sostenerle (pare banale, ma il dibattito pubblico spesso se ne dimentica) e per trovare i voti devi allargare il consenso, tener conto del punto di vista degli altri. E così la legge contro l’omofobia, approvata nel settembre 2013 dalla Camera, è rimasta insabbiata al Senato (benedetto bicameralismo paritario) uccisa dal fuoco incrociato dagli opposti estremismi, privando così il Paese di una legge importante e procurandomi molto dolore, non solo politico ma anche personale.
Le lacrime però, quelle vere, sono arrivate a maggio 2016, il giorno 11, per l’esattezza. Speravo non se ne accorgesse nessuno e invece… effettivamente i banchi del governo non sono il posto più riparato d’Italia. Maria Elena Boschi, che tra i suoi tanti meriti ha anche quello di aver traghettato la legge nelle due aule di Senato e Camera – insieme alla mia collega Sesa Amici – proteggendola da tutti i possibili trabocchetti regolamentari, disse una volta in direzione PD che aver approvato la legge sulle unioni civili è stato un traguardo che, da solo, è valso un’intera vita politica. È davvero cosi e, nel mio caso, ha dato valore anche alla mia vita privata, visto che giusto un anno dopo anche la mia famiglia ha potuto vedersi riconosciuta la dignità e la libertà di ogni altra famiglia italiana.
Da due anni frequento un po’ meno l’aula. Da quando, alla fine di gennaio del 2016, il presidente Renzi mi comunicò che sarei andato a sostituire al Commercio internazionale Carlo Calenda che partiva per Bruxelles, prima che Carlo tornasse al MISE a fare uno straordinario lavoro come ministro, ho viaggiato tanto. 41 missioni e 26 paesi visitati, e a febbraio ci aggiungiamo il ventisettesimo: l’Albania. Avevamo chiuso il 2015 con 414 miliardi di export, record assoluto all’epoca, potremmo chiudere il 2017 intorno ai 450 miliardi. Nel 2016 siamo stati i noni esportatori al mondo e i sesti per avanzo della bilancia commerciale. Come ha detto in conferenza stampa il presidente Gentiloni parlando di questi numeri, “nun ce se crede, ma è così”.
È solo una parte dei numeri positivi della nostra economia: sono cresciuti i posti di lavoro e le ore lavorate, la produzione industriale, gli ordinativi, gli investimenti, la fiducia di famiglie e consumatori. L’ISTAT parla di un ciclo espansivo della nostra economia, S&P ci promuove per la prima volta dopo 15 anni, tutti gli osservatori correggono le stime del nostro PIL al rialzo da mesi. I giornali potranno non parlarne e le opposizioni vecchie e nuove provare a dare una lettura diversa dei dati ufficiali, ma l’orgoglio di aver fatto parte di governi che – con tutto il lavoro che ancora c’è certamente da fare – hanno visto salire tutti gli indicatori economici durante il loro mandato, quello non può togliercelo nessuno. Non tanto per noi come individui o come Partito, ma per il Paese che sta oggi – oggettivamente – meglio di 5 anni fa.
Tra pochi giorni ci tufferemo in campagna elettorale e quindi voglio dedicare, come spero farete tutti, questi ultimi giorni di festa ai miei affetti e a Federico in particolare. Mi prendo dunque qualche giorno di pausa da Facebook, Twitter e social media vari. Ma con la firma di oggi del Presidente Mattarella un pensiero a questi anni non poteva mancare.
Faccio politica non da molto e vengo dal privato. Spesso mi è stato chiesto che differenza ci sia tra lavorare in una grande istituzione finanziaria internazionale e servire nel settore pubblico. Ho sempre risposto che la differenza più grande sta nel fatto che da quando sono al governo, dietro alla mia scrivania, ci sono state sempre le bandiere: il tricolore italiano e la bandiera con le stelle d’Europa. Lavorare avendo quei simboli alle spalle è una specie di perpetuo memento di quanto alta e delicata sia la tua responsabilità e di quanto importanti siano i valori che quei vessilli rappresentano. Mi sono spesso venute in mente le lettere alle madri di quei ragazzini, magari solo diciottenni o più giovani ancora, fucilati durante la resistenza, che morivano per la libertà (nostra) sacrificando la vita (loro). Di quel sacrificio, del suo lascito e del suo significato dovremmo sempre tenere memoria.
“Ai nipotini” racconterò dunque che ho stretto la mano a ministri e capi di Stato; che mi sono seduto a tavoli importanti dietro a un cartello dove c’era scritto “Italia” e c’ero io lì a parlare a nome di tutti i miei concittadini; che ho lavorato con il Parlamento per cambiare la Costituzione: attenti alla delicatezza del lavoro come entomologi, rispettosi della sua sacralità come sacerdoti, gravati collettivamente da una responsabilità enorme.
Cose da far tremare le vene e i polsi ma cose che danno senso, come ha detto bene Maria Elena, a una vita intera. In questo caso la mia, che dopo questi indimenticabili 5 anni di esperienza posso già dire con certezza che sarà sicuramente valsa la pena di averla vissuta.