La moda italiana e la sfida della sostenibilità
Sulla terribile vicenda di Dacca e dei nostri connazionali uccisi dall’odio e dal fanatismo, ha cominciato a crescere – nel ventre molle dei social media – un rumore di fondo, una giustapposizione fra i nostri manager o imprenditori che si sono trasferiti in quella parte del mondo e le condizioni di barbaro sfruttamento della manodopera delle aziende tessili, specie femminile, specie minorile, che perdurano in Bangladesh. Si ricorda, e non lo si farà mai abbastanza, l’immane tragedia del Rana Plaza, forse il più sanguinoso eccidio sul lavoro che la storia ricordi (più di 1100 vittime, oltre 2500 feriti).
Questa giustapposizione non si è finora spinta, per fortuna, a postulare un rapporto di causa ed effetto fra le due vicende. I boia dell’Isis non somigliano neanche da lontano a difensori degli oppressi e vindici degli sfruttati, e gli italiani che lavorano nel tessile (alcuni dei quali si sono trovati disgraziatamente in quel ristorante di Dacca) non sono né schiavisti né aspiranti tali. Ma rimane questo inconsulto legame, quasi che piangere per i nostri connazionali caduti equivalga a dimenticare o permettere il silenzioso esercito dei martiri dello sfruttamento.
Questo si inserisce nella vasta e fortunata letteratura sulle colpe dell’Occidente, il mainstream di una intera generazione di pensatori. Come tutte le letteratura, anch’essa ha un suo nucleo profondo e interessante e una sua appendice: quella che trasforma il carico di contraddizioni e di tragedie della storia in un insulso fumetto terzomondista, che vuole ammaestrarci su quanto sarebbero felici e mansueti i popoli e le nazioni sol che non ci fosse la bieca avidità dei capitalisti.
Non è giusto, però, che in nome di suggestioni benintenzionate, si capovolga la verità. I manager e gli imprenditori del tessile italiano non solo non creano e non favoriscono lo sfruttamento nei paesi in via di sviluppo, ma ne sono, nella stragrande maggioranza dei casi, tra i principali avversari. Sono fra i protagonisti di una serissima e meritoria riflessione che ha portato 217 marchi globali a sottoscrivere l’accordo per il miglioramento della sicurezza dei luoghi di lavoro, che ha determinato nelle fabbriche regolari un significativo incremento salariale, che sta favorendo la presenza sindacale e le relazioni industriali; che si sforza, con molti limiti e in condizioni difficili, di costruire quella civiltà del lavoro che è prerogativa dello sviluppo e della modernità e che l’Isis vede come il fumo negli occhi.
Significa che i problemi dello sfruttamento selvaggio e del lavoro malpagato e insicuro sono terminati? Certamente no: non lo sono in Italia (qualcuno si ricorda di Barletta?) e men che meno lo sono in Bangladesh. Ma si sta lavorando per ridurli, per garantire al mercato occidentale (che li richiede in misura sempre crescente) prodotti ambientalmente ed eticamente sostenibili, preferibilmente certificati in tal senso.
Perché anche nella moda, in questa eccellenza del made in Italy che dà lavoro a più di 460mila persone, rappresenta l’11% e oltre del manifatturiero italiano (e l’8,6% del commercio), avanza con sempre maggiore decisione l’importanza della sostenibilità e della responsabilità sociale d’impresa, di quel complesso di comportamenti e scelte che si fanno carico non solo dell’equilibrio fra costi e ricavi, ma anche dei costi indotti sopportati dalla comunità.
L’esperienza che stiamo portando avanti presso il Ministero dello Sviluppo economico con il tavolo della moda e dell’accessorio, al quale partecipano le realtà rappresentative dell’intero e vastissimo comparto (dai filati al tessile, alle confezioni, passando per i pellami, le calzature, gli occhiali, l’oro e i gioielli), ha nella sostenibilità nel senso innanzi inteso, uno dei suoi punti cardine e uno dei suoi più attivi tavoli di lavoro.
Credo che in questo momento di lutto sia doveroso ricordarlo.