Perché la strage a Orlando ricorda quella di Utøya
Qualcuno mi ha chiesto come mai, nell’intervista che ho rilasciato oggi a Delia Vaccarello de L’Unità, io non abbia fatto riferimento al terrorismo islamico come elemento qualificante della strage di ieri a Orlando.
Il fatto è che, se saranno confermati i legami organizzativi o anche soltanto motivazionali dell’assassino con l’ISIS, questo elemento può al limite influire con la dinamica dell’omicidio di massa, certamente non con le sue radici o le sue motivazioni. Quello che unisce secondo me il Pulse di Orlando e il Bataclan di Parigi è al massimo la tecnica militare usata nei due casi: dal punto di vista invece delle cause scatenanti e dell’effetto prodotto ci sono secondo me profondissime differenze.
Gli assassini di Parigi volevano creare il terrore generale, fare in modo che nessuno si sentisse più sicuro in nessun luogo: allo stadio, al tavolino di un ristorante, in una sala concerti. Quanto più erano indiscriminate le vittime, tanto più ciascuno si sarebbe potuto e dovuto sentire oggetto potenziale di una minaccia. Lo stragista della Florida, invece, ha fatto un ragionamento molto diverso. È andato a fare strage di omosessuali (“froci”, avrà probabilmente pensato lui). Qui l’idea non era di mettere sotto scacco un’intera comunità cittadina o nazionale, ma di intimidire un preciso gruppo di persone. Fare in modo che la paura attraversasse non tutti, ma solo alcuni.
L’odio verso l’occidente, che probabilmente attraversava la mente degli attentatori sia a Parigi che e Orlando, ha prodotto lo stesso piano operativo ma con due messaggi completamente diversi. Nel primo caso si è colpita la società occidentale nel suo modo complessivo di divertirsi, socializzare, vivere. Nel secondo, invece, si è voluta mettere in discussione l’evoluzione dei nostri paesi che sono finalmente giunti a separare completamente ciò che è peccato da ciò che è reato, spingendosi al punto di configurare ciò che è peccato per quasi tutte le religioni in un diritto soggettivo, e addirittura costituzionale. E dunque intoccabile.
Oram Mateen ha voluto stigmatizzare questo passaggio. Lo ha fatto spingendosi alle estreme conseguenze, con una tecnica terroristica che abbiamo visto negli ultimi mesi essere propria del terrorismo islamico a Parigi come a Bruxelles. Ma il motivo che lo ha spinto a un gesto così devastante, non appartiene soltanto al terrorismo islamico, né solo all’Islam.
La mia opinione è che se c’è qualcosa a cui assomiglia l’attacco di ieri e se c’è qualcuno che si può paragonare all’assassino di Orlando, quelli non sono né l’attacco di Parigi né Salah Abdeslam. Chi mi viene in mente è invece Anders Breivik e la strage dell’isola di Utoya del 22 luglio del 2011.
Mateen come Breivik elaborano un pensiero anti-progressista che fa crescere in loro l’odio verso un mondo in cui si superano le differenze, in cui anzi la differenza è considerata un valore. In cui l’orientamento sessuale o l’origine etnica non costituiscono elementi che possano fondare una discriminazione giuridica, né sociale. In cui si rinuncia a un approccio identitario per favorire un cosmopolitismo che essi considerano una specie di cancro che va curato con ogni mezzo. Questo pensiero, unito a un’ideologia totalitaria (quella dell’ISIS o quella delle destra neonazista) e, immagino, a un quadro psichiatrico non perfettamente rassicurante, li conduce a compiere dei massacri.
Ma questo non significa che non ci siano tantissime persone che, pur non avendo nessuna intenzione di torcere un capello a chicchessia, la pensano come loro. Ci sono fior di partiti e di movimenti politici che, pur non rinunciando in alcun modo al metodo democratico, propugnano un’idea di società nella quale l’identità etnica delle nazioni deve essere rigorosamente preservata. O personaggi politici che, pacificamente e con la sola legittima forza delle loro idee, condannano in modo radicale l’emancipazione delle donne e il riconoscimento dell’uguaglianza delle persone omosessuali.
L’omofobia, la xenofobia, la misoginia, non appartengono soltanto all’Islam, insomma. Si declinano in vario modo in amplissimi settori della società a tutte le latitudini. Naturalmente nella quasi totalità dei casi, vengono espresse in modo del tutto pacifico. Per arrivare alla strage ci vuole un mix orribile di follia, fanatismo e violenza che non ha fortunatamente quasi mai il caso di venire a crearsi. Ma pensare che solo un terrorista islamico avrebbe in teoria potuto sviluppare un odio di quel genere nei confronti della comunità LGBT, tale da commettere una mattanza come quella di Orlando, sarebbe secondo me limitativo e miope. Come ha detto giustamente ieri il Presidente Obama è stato “an act of terror AND an act of hate”.
Voglio riportare integralmente le parole di Barack Obama, perché il Presidente degli Stati Uniti ha saputo inquadrare bene la vicenda, e raccontarla come si deve al capo di Stato di una nazione democratica, aperta e nella quale le differenze sono appunto considerate un tratto distintivo dello spirito della nazione, non una minaccia né un problema.
«This is an especially heartbreaking day for all our friends — our fellow Americans — who are lesbian, gay, bisexual or transgender. The shooter targeted a nightclub where people came together to be with friends, to dance and to sing, and to live. The place where they were attacked is more than a nightclub— it is a place of solidarity and empowerment where people have come together to raise awareness, to speak their minds, and to advocate for their civil rights. So this is a sobering reminder that attacks on any American — regardless of race, ethnicity, religion or sexual orientation — is an attack on all of us and on the fundamental values of equality and dignity that define us as a country. And no act of hate or terror will ever change who we are or the values that make us Americans».
Per un politico, dire dalla Casa Bianca che una discoteca gay è «più che un night club; è un luogo di solidarietà e di legittimazione dove le persone si incontrano per aumentare la propria consapevolezza, per parlarsi apertamente e per lavorare attivamente per i propri diritti» significa accettare di assumersi un rischio al fine di comunicare alle persone i valori dell’uguaglianza, dell’apertura, della comprensione, dell’accettazione, del rispetto reciproco, dell’inclusione. Chi ieri ha cominciato ad ascoltare Obama pensando che una discoteca gay fosse più o meno un luogo di perdizione, ha sicuramente dovuto fermarsi a pensare davanti alle parole del comandante in capo delle forze armate degli Stati Uniti che dicevano che non è così.
Per questo io credo che l’evento di Orlando ci chieda di riprendere in mano la legge contro l’omofobia e la transfobia che langue da quasi tre anni al Senato. Non per le sanzioni penali che prevede, ma per il messaggio politico ed educativo che dà. Per dire che l’Italia sta dalla parte di chi crede in una società aperta, diversa e ricca e non in un modello di Paese chiuso e identitario. Che stiamo dalla parte dei ragazzi che ballano in tutte le discoteche del mondo – che sono, ora lo sappiamo, «places of solidariety and empowerment» – e non dalla parte di chi pensa che quei ragazzi siano sbagliati, malati o inferiori.