Al ritorno da Teheran
Rientrato giovedì mattina dall’Iran, esperienza incredibile. Non pensavo che sarei mai stato nella mia vita a Teheran, e probabilmente così sarebbe stato se non ci fossi andato per ragioni di ufficio. Devo ammettere che sono arrivato lì abbastanza nervoso, mi aspettavo di vedere un Paese in cui la presenza dello Stato teocratico fosse tangibile in ogni angolo della città e della vita delle persone: una foresta di minareti, altoparlanti rimbombanti le voci dei muezzin, enormi ritratti lungo le strade.
E invece ho trovato una città molto secolarizzata, una metropoli asiatica non troppo diversa da quelle che avevo già visitato, una città – come mi è stato detto da un connazionale che lavora da quelle parti – i cui abitanti sono musulmani più o meno quanto sono cattolici i cittadini di Roma. Ieri sera, prima di partire, abbiamo cenato in un ristorante che, mancanza del vino a parte, avrebbe potuto essere benissimo a Londra o a Los Angeles.
L’Iran è un paese di giovani, e di giovani istruiti. Teheran è una metropoli e la vita, mi hanno raccontato, scorre non molto diversa da quella di molte grandi città: la differenza è che molta parte della vita si svolge nelle case, in privato e non in pubblico. Naturalmente le cose sono diverse nelle città più piccole, o nelle zone rurali, ma è evidente – per esempio – che il ruolo delle donne, pur con il capo coperto da un velo che spesso lascia vedere una larga parte della capigliatura, è molto più significativo di quanto non si possa pensare. Recentemente ho fatto incontri con altre delegazioni di paesi islamici e, facendo un confronto tra le situazioni, ho visto un rispetto molto molto maggiore per le donne da parte dei loro colleghi uomini in Iran di quanto non mi sia capitato in altri casi.
Dico questo solo per dire che lo stereotipo che avevo prima di arrivare (largamente ispirato dal film “Argo”, chi lo ha visto capirà cosa dico) si è totalmente modificato davanti alla realtà. È chiaro che la situazione dei diritti umani in quel Paese è uno dei punti sui quali non può esserci accordo tra Italia e Iran ed è un tema che Renzi ha ricordato anche durante le dichiarazioni alla stampa con il Presidente Rohani. Del resto, la delegazione governativa italiana capeggiata dal Presidente del Consiglio era composta da una ministra donna e da un sottosegretario gay, e sulle differenze tra i due Paesi ho detto tutto.
È questa la risposta che mi sono dato quando sono stato nominato al Commercio internazionale: in generale non c’è miglior modo di testimoniare il proprio diritto all’uguaglianza che esercitarla, quell’uguaglianza, e farlo anche per chi non ne ha la possibilità.
So che non tutti la pensano così: sono stato molto attaccato quando ho chiesto e ottenuto che il mio “convivente more uxorio” ottenesse gli stessi diritti dei “conviventi more uxorio” di tutti gli altri parlamentari. Ho avuto ragione e penso che in questo modo sia sia abbattuta una barriera e si sia fissato un principio di carattere generale che questa volta è valso per me, per la casuale circostanza che sono arrivato per primo, ma che varrà in futuro per tutti coloro che verrano dopo di me.
Lo stesso vale per l’incarico di governo. Sono gay e sono un uomo di Stato, è una circostanza non comune in tutto il mondo e in molti Paesi del mondo sarebbe inconcepibile, quando non è direttamente impossibile perché i gay devono difendersi dalla galera o dalla morte. Davanti a questa constatazione io che ho avuto la ventura di essere nominato a questo incarico, posso fare solo una di queste due cose: la prima è rinunciare a essere un uomo di Stato per solidarietà con tutti i gay che in altri Paesi non possono accedere a cariche pubbliche. La seconda è esercitare il mio ruolo di uomo di Stato e imporre a quella parte del mondo che non lo accetta il fatto che si può essere tranquillamente gay e uomini di Stato. A battere la strada prima di altri si ha lo svantaggio di non poter ispirarsi a qualcuno che sia passato di là prima di te e le decisioni si prendono dunque in solitudine, con ampi margini di errore. Ma tra la rinuncia e l’assunzione di responsabilità, la scelta è obbligata.
Mi spiego: se tutte le donne rinunciassero ad incarichi pubblici di rilevanza internazionale per non avere contatti con i Paesi dove donne come loro vivono situazioni di minorità non avremmo avuto Segretarie di Stato degli Stati Uniti, Ministre degli esteri o della difesa, non potremmo forse presto avere una Presidente degli Stati Uniti. Stefania Giannini era con me a Teheran, aveva il capo velato, ma è pur sempre stato con lei che i vertici del governo di Teheran hanno dovuto concordare i programmi di cooperazione che le nostre università e i nostri centri di ricerca stabiliranno con le controparti iraniane. Se tutte le donne italiane, pur di non andare in un posto dove devono coprirsi il capo, rinunciassero a fare il mestiere di Stefania Giannini, in quel posto semplicemente ci sarebbe un uomo.
Ci sono Stati con cui non condividiamo alcune posizioni, ma questo non significa rinunciare a fare politica. La politica estera, poi, è una cosa particolarmente complicata e davvero non si presta alle polemiche dei “leoni della tastiera”, quelli bravi soprattutto a combattere battaglie dal divano di casa propria.
Immagino che anche i più severi critici della mia missione in Iran rispetteranno Emma Bonino come un’icona dei diritti umani nel mondo. Ebbene, farebbero bene a leggere le parole di questa sua intervista, peraltro anch’essa corredata da una fotografia della stessa Bonino con il capo velato, nella quale spiega bene quali siano le ragioni della politica di apertura italiana verso l’Iran e fa menzione anche dei tavoli italo-iraniani sui diritti umani di cui, come dicevo prima, ha parlato anche il Presidente Renzi durante la conferenza stampa con Rohani. Un passo davvero notevole quello, probabilmente non sottolineato a sufficienza dai nostri organi di informazione.
Pensare che le buone ragioni spiegate da Bonino perché l’Italia sia presente in Iran non possano essere poi messe in pratica da un sottosegretario gay (perché lì i gay sono passibili di pena di morte) o da una ministra donna (perché lì le donne non godono della parità dei diritti), significa dire in concreto che queste buone ragioni possono essere rappresentate solo da ministri eterosessuali e uomini. Curioso che a sostenerlo, tra i critici da social network, siano soprattutto sedicenti difensori dei diritti dei gay. Pensare che le donne, che le persone omosessuali o di colore, che gli appartenenti ad altre minoranze, siano buoni soltanto per le azioni dimostrative e le manifestazioni di piazza e non siano in grado di comprendere e gestire al più alto livello i complessi equilibri di cui è fatta la realtà, è tutto il contrario di un riconoscimento.
Così come pensare che astenersi dal portare, anche attraverso la propria personale testimonianza, i nostri valori di democrazia e di rispetto per le minoranze in paesi dove queste soffrono sia far loro un piacere. “In Iran l’opinione pubblica esiste, nelle grandi città conta. Non è un’opinione pubblica anti-occidentale, vuole il dialogo, il progresso, l’apertura del paese”, dice Emma Bonino. Ha ragione, ed è con la presenza di Paesi come il nostro – e delle missioni dei loro governanti – che questo dialogo, questo progresso, questa apertura vengono incoraggiati. Se le grandi democrazie fossero assenti da quegli scenari, la vita di chi è oppresso si farebbe non più facile, ma più difficile.
Vale dunque, oggi che sono al governo, ciò che valeva negli anni in cui ho lavorato per una banca internazionale: la convinzione che non potrei rendere miglior servizio alla mia comunità, quella LGBTQI intendo, che facendo nel miglior modo possibile il mio lavoro. In modo assolutamente neutrale rispetto al mio essere gay, ma essendo molto orgoglioso di esserlo, nella vita privata come in quella pubblica. Senza abbassare mai, nemmeno per un attimo, lo sguardo davanti a un interlocutore: sia esso un familiare o un conoscente, un collega in azienda o il Presidente di uno Stato straniero.
Ottenendo da ciascuno, per me, il rispetto che è dovuto a tutti quelli come me.