Nel lungo periodo
Qualche giorno fa, leggendo un articolo che Antonio Padellaro mi ha dedicato sul “Fatto”, mi tornava in mente una bella canzone di Angelo Branduardi, che è poi la versione musicale di una scintillante poesia di Sergej Esenin: “Confessioni di un malandrino”. La utilizzo per parlare, non senza un qualche imbarazzo, di me stesso e dell’opinione che di me manifestano alcuni osservatori.
È chiaro che chi abbia una visibilità pubblica, per quanto piccola, deve rassegnarsi ad avere consensi e dissensi, simpatizzanti e antipatizzanti; tanto più se questa visibilità discende da una collocazione politica o di governo. Ma viene spesso ripetuta, da molte persone – oltre al già citato Padellaro ricordo il mio incontro con il magnifico Piergiorgio Odifreddi in una puntata di Ballarò qualche settimana fa, oltre ad alcuni miei seguaci sui social network – una ricostruzione che mi vuole trasformato da quello che un tempo ero (uno strenuo difensore dei diritti civili e il promotore trasgressivo e ribelle di un radicale cambiamento del nostro Paese), a quello che sarei oggi: un’opaca guardia di regime, trucido spicciafaccende al servizio degli immancabili “potenti”.
Questi miei critici, guardandomi sembrano esclamare il virgiliano “quantum mutatus ab illo!” con espressioni di rammarico più o meno estese e il tentativo di mettere il me stesso di ieri contro il me stesso di oggi. Certo, qualcosa è cambiato: l’età di sicuro, quel minimo di sovrappeso indifferente a qualsiasi disciplina, l’incanutirsi della mia barba e dei miei capelli, i segni di qualche affetto che mi ha lasciato. Ma “il cuore ed i pensieri son gli stessi”, dico, come nella poesia e nella canzone.
Il mio impegno per i diritti civili è lo stesso di sempre, casomai accresciuto. Un’opinione soggettiva, certo, ma che trova qualche conforto nei fatti; perché se quell’impegno fosse venuto meno, non sarei esorcizzato come satanasso da una vasta congerie di fondamentalisti ed oscurantisti e Forza Nuova non esulterebbe, per esempio, per essere riuscita ad organizzare un “convegno sul gender” nella città dove ho trascorso l’infanzia.
La mia vocazione al cambiamento è la medesima di sempre, con la particolarità, che a qualcuno pare probabilmente controintuitiva, che per me il cambiamento ha senso solo se si riesce a praticarlo, e a trasformarlo in realtà. Che la testimonianza va benissimo se non diventa soltanto lo sterile ripetersi di auspici destinati a restare sulla carta. Questo spiega il mio sostegno, sin dal principio, alle istanze e al lavoro di Matteo Renzi. Che tutto fa tranne che rinnegare la mia originaria, appassionata richiesta di discontinuità; al contrario. Sin dal mio debutto in politica ormai dieci anni fa, quando da sconosciuto italiano all’estero sfidai importanti personaggi politici (tutti oggi fuori dalla politica attiva) alle primarie dell’Unione, la mia idea è stata quella che ci volesse un cambiamento capace di vincere, e farsi realtà. Di mondi meravigliosi e irrealizzabili è piena la storia, anche recente, della sinistra italiana. Quello in cui speravo allora e lavoro oggi è invece la fatica fisica del cambiamento, inclusi tutti i suoi possibili errori, i trabocchetti, gli stop-and-go, i rischi e i fallimenti.
Il fatto è che oggi stiamo vincendo: con l’inevitabile storcersi del naso dei duri e dei puri, ma stiamo vincendo. Ed è forse proprio questo che non va giù a chi vuole appiccicarmi l’etichetta di apostata. Questo accade probabilmente perché, come il Bertinotti di una geniale imitazione di Corrado Guzzanti, chi ci critica è terrorizzato dall’idea di essere maggioranza. È previsto che il combattente per i principi cada in battaglia, sia dannato all’esilio o al martirio, che possa tutt’al più godere di un buen retiro a Caprera. L’opzione “successo” non è contemplata.
Un autore che non è proprio fra i miei guru, Vladimir Ilič Uljanov, aveva in mente questo, quando definì l’estremismo la malattia infantile del comunismo. Da parte mia, peraltro, non posso nascondere che comprendo benissimo i mugugni e gli appunti, le riserve e le critiche. La mia modestissima comparsa nella scena pubblica italiana fu infatti originata, nell’ormai remotissimo 1997, da una lettera che scrissi a Barbara Palombelli su Repubblica (che contro ogni mia aspettativa la pubblicò con grande evidenza) nella quale manifestavo la delusione mia e di tanti miei amici per l’appannato profilo riformista del primo Governo Prodi, dal quale ci si aspettavano novità radicali. L’impazienza è parte costitutiva e preziosa della giovinezza. Crescere significa tradurre un impeto di cambiamento e di speranza in un esercizio quotidiano, in una prassi. Ma senza scordarsi di quell’impeto.
È questo che ho cercato e sto cercando di fare. Non perché, in accordo con il cinico aforisma di Pitigrilli, “si nasce incendiari e si finisce pompieri”, cari miei preziosi detrattori e critici; ma perché non ci si può e non ci si deve accontentare dei proclami, della testimonianza, della profezia. Non sono al Governo malgrado sia stato uno strenuo sostenitore della laicità dello Stato e di un profondo rinnovamento del nostro Paese, insomma; sono al Governo perché continuo indefessamente a esserlo e vorrei vedere tutto questo trasformarsi presto in realtà.
Perché nel lungo periodo, come disse quel famoso economista, saremo tutti morti.