Sono io che non capisco
C’e sicuramente qualcosa che non capisco. Sono dieci anni che si cerca di fare una legge elettorale e non ci si riesce. Poi il governo diretto dal segretario del tuo partito si mette di buzzo buono, mette seriamente in cantiere una legge elettorale e la fa approvare dalla Camera. La fa anche con l’opposizione (le regole, si sa, si fanno tutti insieme) e la fa bene: è una legge che assicura stabilità, che ha collegi più piccoli e quindi migliora il rapporto tra eletti ed elettori, che chiarisce subito chi vince e lo mette in condizione di governare per 5 anni senza scuse e senza alibi.
Allora tu dici: sì, bella idea. Però, pensi, ci sono cose da migliorare. Per esempio, la soglia per entrare in parlamento è troppo alta. Ed è invece troppo bassa la soglia per accedere al premio di maggioranza senza ballottaggio (perché sì, la legge ha anche il doppio turno). E poi bisogna garantire la parità tra i generi. In ultimo ti viene anche un’idea nuova, che non avevi avuto mai: vuoi pure le preferenze.
Quelle preferenze di cui avevi parlato male per anni, come avevi sottolineato in tutti i documenti del tuo partito: quelle che favoriscono i capibastone e penalizzano donne e giovani. Quelle che fanno moltiplicare le spese elettorali. Quelle che aumentano il clientelismo. Quelle che al nord sono utilizzate dal 15 per cento degli elettori e al sud dall’80 per cento. Sarà ancora. Però hai cambiato idea (è legittimo) e adesso pensi che le preferenze ci vogliono assolutamente e inderogabilmente.
Ok: nel passaggio dalla Camera al Senato ti arriva praticamente tutto: resta il ballottaggio e la sicurezza di chi ha vinto, resta la governabilità e i collegi più piccoli di quelli di prima. Ma arrivano anche una soglia di ingresso più bassa, una soglia per il premio più alta, arriva la parità di genere e arrivano – pensa! – pure le preferenze. Ma…
…ma le preferenze arrivano insieme all’indicazione di un capolista forte, che funziona come il titolare di un collegio uninominale. Sulla scheda: nome di un solo candidato e simbolo del partito, immediata e diretta connessione tra un nome e una compagine politica. Si eleggeranno così forse il 50% dei deputati (stima D’Alimonte sul Sole 24 ore di ieri): meno del 75% di “nominati” che facevano i candidati nei collegi uninominali del Mattarellum e che nessuno però definiva “nominati”. Perché non li definivamo nominati? Perché se sulla scheda c’è un solo nome attaccato a un simbolo, l’elettore ha la possibilità di votare per un altro nome più gradito e dunque per un altro simbolo. Non è una nomina, è un’elezione.
Insomma, in tutta la legge elettorale, una legge che non si riusciva a fare da dieci anni, di tutto quello che volevi tu, manca soltanto un pezzo. Anzi, diciamolo: un dettaglio. Ma un dettaglio senza il quale non ci sono i numeri per fare la legge. E tu che fai? Fai saltare il tavolo, voti contro il tuo partito, rischi di non fare approvare nessuna legge elettorale – peraltro rimettendo il vero avversario politico al centro della scena?
Boh. Sono sicuramente io che non capisco.
Aggiornamento. Più d’uno, su Twitter, mi chiede di commentare l’aspetto della legge legato alle pluricandidature. Rispondo volentieri. Le pluricandidature – che saranno molto usate dai partiti piccoli al fine di assicurare un seggio ai propri leader – comportano che se il candidato “uninominale” che ho votato nel mio collegio opta per un altro collegio, quel seggio sarà assegnato a uno dei candidati eletti con le preferenze.
Se Giorgia Meloni o Angelino Alfano sono i miei capilista, insomma, questo significa che con tutta probabilità nel mio collegio scatterà il primo candidato in termini di preferenza. Questo, in sede locale, mi pare perfetto.
A livello di sistema generale, peraltro, questo significa che per ogni candidato che si presenta in – poniamo il caso massimo – 10 circoscrizioni, si libereranno 9 posti per gli eletti con le preferenze. Il che dovrebbe costituire, per i tifosi delle preferenze, un ulteriore punto di forza della legge.