Quelli della mozione Thatcher
Diciamoci la verità. Che strumenti avrebbe in mano oggi chi volesse contrastare un governo che sta smuovendo i sassi dell’immobilismo nostrano, circondato da un grande consenso popolare in Italia e il cui leader è riconosciuto all’estero come una delle più significative novità della politica internazionale? Facile: alzare la temperatura, soffiare sul fuoco dello scontro sociale.
L’equazione è facile: se si vuole dimostrare che Renzi è la Thatcher bisogna creargli intorno una situazione di scontro. Altrimenti che Thatcher sarebbe? Gli attacchi agli operai della polizia a Roma sono stati un episodio gravissimo, orribile, e sono stati anche un errore molto grave dal punto di vista politico perché hanno offerto su un piatto d’argento l’occasione a Landini per fare quella piazzata sulle Leopolde – inframezzata da irripetibili francesismi – che dovevano servire a rappresentarlo come il campione della resistenza al tiranno.
Io credo che qui non ci sia nessuna Thatcher e nessun tiranno, e che francamente non ci sia bisogno di nessun resistente. Ha sbagliato moltissimo la mia amica Pina Picierno e usare quei toni in televisione, ma vero è che davanti alla rappresentazione di Renzi come il campione dei poteri forti viene da chiedersi – certamente non della genuinità tessere e dei pullman – ma della capacità della CGIL di rappresentare il mondo del lavoro oggi. Della sua rappresentatività, del suo ruolo, della “spinta propulsiva” del suo agire politico.
Viene da chiedersi che senso abbia e con quale diritto possa pretendere di condizionare la politica economica del governo un sindacato che per venti anni è stato assolutamente afasico sul dramma della precarietà giovanile. Incapace di rappresentare il futuro, composto com’è in modo assolutamente maggioritario da pensionati: gente, cioè, che ha lavorato in altri tempi e che non lavora più. Come possa pretendere di dettare le regole del lavoro un sindacato la cui presenza in tutti i luoghi di lavoro diversi dalle fabbriche diventa sempre meno rilevante. Un sindacato di cui non si ha traccia nei call centre, nei servizi, nell’economia dell’innovazione.
Ci sono certamente ancora padroni e sfruttati in Italia, ma questa non può essere la premessa generale sulla quale fondare una visione per governare il Paese. Come ci hanno insegnato le esperienze di molti paesi meno in difficoltà del nostro, si viene fuori dalle secche soltanto se si promuove un modo di fare impresa più moderno e capace di costruire le proprie fortune sulle capacità di chi lavora e se, al tempo stesso, il lavoro acquisisce la consapevolezza che non esiste nessuno strumento di welfare migliore che avere un lavoro in un’azienda solida e fiorente.
Il 40% di cui il PD è accreditato oggi è il frutto della nostra capacità di essere tornati a parlare a categorie come giovani e operai, tra i quali eravamo diventati il terzo partito, ma anche di aver acquisito una voce presso quei piccoli e medi imprenditori che non ci avevano mai considerati come un’opzione. Tutto nasce dalla consapevolezza che operai e imprenditori sono concittadini tutti e due ed entrambi contribuiscono alla prosperità dell’Italia.
Massimo rispetto per la piazza, dunque. È certamente una parte della sinistra e come tale va ascoltata e apprezzata. Ma il mondo non finisce là, non finisce là il Paese a cui il governo deve parlare. Le tante importanti riforme messe in cantiere, una legge di stabilità finalmente di impatto (non so chi ancora i pannicelli caldi dell’anno scorso), il nostro ritrovato ruolo in Europa, tutto questo parla per noi.
Chi sogna una Thatcher per dare un senso alla propria debolezza, se ne faccia presto una ragione.