Una riforma frutto delle proposte democratiche

Se lasciamo per un attimo da parte la nuova disciplina dei licenziamenti fondati su ragioni economiche e organizzative è fuor di dubbio che il mercato del lavoro disegnato dalla riforma Fornero è un mercato del lavoro migliore e più civile della giungla cui siamo stati abituati. Aumenta il costo dei contratti a termine, si restringe l’applicabilità dei contratti a progetto (peccato non essere riusciti ad arrivare al contratto unico), le false partite Iva vengono finalmente messe sotto osservazione e, speriamo, smascherate.

Questo comporta anche che l’estensione della reintegrazione nel caso di licenziamento discriminatorio coprirà non solo i dipendenti di aziende con meno di 15 addetti ma anche tutti coloro che nel vecchio sistema sarebbero stati precari a lungo termine senza tutela alcuna. Questa estensione è un passo veramente storico: giovani e anziani, donne e persone di colore, disabili e gay, comunisti e buddisti non potranno essere licenziati per il solo fatto di essere ciò che sono.

È un passo storico perché riconosce che anche nella categoria “lavoratori” esistono persone più soggette a un rischio di discriminazione e dunque meritevoli di specifiche tutele. Una novità assoluta per l’Italia, dove le cause per discriminazione sono state fino ad oggi un fenomeno molto raro e la cultura del diversity management è ancora ai suoi albori. Dalla riforma, inoltre, si comincia ad intravedere anche il disegno di una società dove i carichi di assistenza e cura familiare non devono cadere solo sulle spalle delle donne e dove i giovani non devono dipendere dai genitori fino a quarant’anni. A cominciare dall’abrogazione dell’odiosa norma sulle dimissioni in bianco, passando per il congedo di paternità obbligatorio, fino ad arrivare al sacrosanto principio che non si debba mai lavorare gratis e che uno stage è uno stage solo se chi lo fa è uno studente, non se è un laureato o un diplomato al termine degli studi.

Tutto bene, ma con un prezzo assai salato. Che, causa l’enorme ritardo con cui questa riforma arriva, sui licenziamenti economici o organizzativi anche il tanto bistrattato Ichino – uno cui la storia alla fine tende a dar ragione – pare un agnello. Il punto che mi pare più pesante è infatti quello dell’immediata applicabilità della riforma dell’articolo 18 a tutti i contratti, anche quelli esistenti.

Tutte le proposte fin qui presentate dal Pd – perché il Pd, diciamolo con chiarezza, è l’unica forza che abbia fatto della seria elaborazione su questi temi e quasi tutti i punti recepiti nella riforma vengono dal lavoro dei parlamentari e degli esperti democratici, di tutte le sensibilità e culture – prevedevano la salvaguardia dei diritti acquisiti dai contratti in essere e l’applicazione delle nuove norme solo ai nuovi ingressi nel mercato del lavoro.

Abbiamo purtroppo traccheggiato, bloccati dai veti contrapposti per anni, senza mai riuscire ad arrivare a una conclusione e il risultato è questo. Si fosse fatta questa benedetta riforma dieci anni fa, avremmo potuto testare le nuove regole in un momento economicamente meno drammatico e oggi saremmo già abbondantemente nel nuovo regime, con tutti gli aggiustamenti necessari già fatti nel corso degli anni. Proprio per questo non credo che oggi il Pd debba essere in imbarazzo davanti a queste novità che, non dobbiamo dimenticarlo, sono state sottoscritte da due dei tre maggiori sindacati nazionali.

È una riforma che mette l’Italia assolutamente in linea con il resto d’Europa – e lo dico per esperienza diretta, essendomi occupato per anni di lavoro dall’estero – e si capisce bene perché la Bce e i mercati ce la chiedessero a viva voce. Con questa disciplina sarà più semplice per le imprese programmare il fabbisogno di lavoro e per gli investitori stranieri pianificare gli investimenti nel nostro paese. È un passo importante, dunque. Bisognerà che a questo passo si aggiungano quelle misure che favoriscono la crescita economica e facciano dell’Italia un paese davvero attrattivo per i capitali stranieri: infrastrutture, lotta alla corruzione e alle criminalità, diminuzione della burocrazia, diffusione della rete in tutte le zone del paese sono misure indispensabili. E bisognerà anche fare in modo che le misure di protezione, di sostegno e di formazione continua per chi resta senza lavoro garantiscano quella security che è presupposto indispensabile per sostenere la flessibilità senza le tensioni sociali che cancellerebbero ogni effetto positivo sulla nostra competitività.

Bisogna inoltre che questa riforma introduca un nuovo schema, anche culturale, delle relazioni industriali: dobbiamo tutti capire che in questo mondo e in questo secolo non c’è più spazio per una contrapposizione tra capitale e lavoro. Possiamo crescere e prosperare solo se coloro che lavorano e coloro che offrono lavoro saranno in grado di diventare un sistema integrato, efficiente e nel quale ciascuno può trovare mutue occasioni di sviluppo e di successo. Gli imprenditori valorizzando appieno le professionalità elevatissime che il nostro lavoro è in grado di offrire e considerando il capitale umano delle proprie aziende non come un limone da spremere ma come la risorsa strategica più importante. I lavoratori sentendosi sempre più autori e compartecipi del successo delle proprie aziende, successo che rappresenta non un illegittimo arricchimento ma il migliore ammortizzatore sociale cui si possa pensare.

Siamo tutti parte di un unico sistema Italia chiamato a competere con paesi vicini e lontanissimi e possiamo vincere la sfida solo insieme: questa in fondo è la ragione stessa per cui abbiamo creato il Partito democratico, il partito nato per parlare a tutti gli italiani.

Ivan Scalfarotto

Deputato di Italia Viva e sottosegretario agli Esteri. È stato sottosegretario alle riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento e successivamente al commercio internazionale. Ha fondato Parks, associazione tra imprese per il Diversity Management.