Natalia e la nube radioattiva
In questi giorni in cui un’altra nube radioattiva si aggira sul pianeta, mi è tornata in mente la mia amatissima collega Natalia, il mio vice nei miei anni di lavoro a Mosca. Un pomeriggio, andando in macchina ad una riunione, mi feci raccontare dei giorni di Chernobyl da lei, una decina di anni più anziana di me, competente e “tosta” come può esserlo solo una che è sopravvissuta con successo a una dittatura lunghissima e plumbea come quella sovietica. Natalia mi raccontò che a Mosca dell’incidente nucleare nessuno seppe per lunghissimi giorni, nonostante il vento dal nord dell’Ucraina fosse girato subito in direzione della Russia. La mia collega lavorava per i giapponesi e il suo capo un giorno – mentre ancora nessuno sapeva – le allungò senza una parola un giornale (americano) in gran segreto. Natalia piegò il foglio e lo mise in borsa, letteralmente terrorizzata che potessero trovarglielo addosso: possedere un giornale straniero in Unione Sovietica era un reato molto grave. Arrivata a casa, Natalia si rintanò in cucina e seppe che gli svedesi avevano rilevato un forte aumento della radioattività. Così apprese di Chernobyl, molto prima dei suoi connazionali. “Mandarono a morire tanti soldati per ricoprire il reattore con il sarcofago. All’epoca della dittatura la vita delle persone da noi non valeva niente”, concluse guardandomi con un sorriso che più amaro non saprei.