Right or wrong, my country
Una mia cara amica di San Francisco, in visita da me un paio settimane fa a Milano, mi aveva raccontato dell’attesa per la sentenza sulla “Proposition 8”. Del procedimento mi aveva raccontato due cose: la prima era che la sentenza sulla costituzionalità o meno della legge che aveva cassato la possibilità per i gay californiani di sposarsi tardava di molto ad arrivare. La seconda era che il giudice Walker, che aveva in mano il fascicolo e avrebbe dovuto decidere il caso e redigere la sentenza, era gay. “Sì, insomma” – aveva continuato – “in realtà non c’è mai stato un coming out, ma quando è uscita la notizia il giudice non ha mai smentito la propria omosessualità”. Così quando ieri si è saputo della decisione, e i giornali americani prima e la stampa internazionale poi hanno dato amplissima eco alla vicenda, ho cercato dappertutto la conferma della notizia che avevo ricevuto sottobanco solo qualche giorno prima. Da bravo italiano abituato da quindici anni a giudici (anche costituzionali) che perseguitano il presidente del consiglio in quanto “comunisti” mi aspettavo un attacco all’arma bianca al povero Walker: “giudice gay riconosce i diritti dei gay” e giù con una bella delegittimazione – anche abbastanza semplice, a dirla tutta – del potere giudiziario. E invece poco: un piccolo ma interessante commento sul Los Angeles Times, un articolo sull’Huffington Post a confermare l’irrilevanza della (presunta) sessualità del decidente e poca altra roba tra le righe. Nessuna prima pagina a caratteri di scatola, nessuna congregazione religiosa in piazza, nemmeno una manifestazione del Ku Klux Klan a dare in testa al giudice gay che decide sui gay. Tutti zitti come Al Gore, che perse le elezioni a causa della Corte Suprema composta da giudici nominati dal padre del suo avversario accettando la decisione finale senza battere ciglio. Una bella lezione pratica di democrazia, non c’è che dire. Com’è che dicono da quelle parti? Right or wrong, my country.