I mobili nel cielo di Stromboli
Sono arrivato alle sei del mattino, col buio, in un luogo in cui non ero mai stato: l’isola di Stromboli. Ero a Stromboli grazie all’invito di “Opere magiche”, un festival discreto e poco pubblicizzato, come in effetti si addice a qualcosa che vuole riflettere sul pensiero magico. Il primo giorno sull’isola è stato di pioggia e di sole. Intorno a metà mattinata ho incrociato una studiosa di tarocchi, anche lei invitata al festival. Mentre ci presentavamo abbiamo sentito un rumore sopra le nostre teste. Per un istante ho pensato che fosse il temporale. Ho ascoltato di nuovo quello stesso rumore nel corso della giornata e allora ho capito che non aveva nulla a che fare col cielo e la minaccia di pioggia. Il rumore era dovuto all’attività del vulcano.
L’esperienza si è ripetuta più volte nell’arco della giornata. Anche di notte. Camminavo in una stradina sotto un cielo trafitto di stelle, che ho scoperto quasi per caso, non avendo più l’abitudine di guardare in alto, ed ecco di nuovo quella specie di boato profondo, soffocato e come attraversato dal suono di decine di punte acuminate che grattano e scalfiscono una superficie. Il giorno dopo il vulcano era silenzioso. Avrei voluto riascoltare il rumore per studiarlo e decifrarlo. Mi mancava. Ho provato a chiudere gli occhi e a cercare un’immagine per descriverlo o associarlo a qualche suono già noto. Sembrava il tipico rumore di un temporale in arrivo, o forse il rombo di un aereo, ma in realtà somigliava a qualcosa di diverso. Sono tornato sulla memoria del suono, un po’ come si torna mentalmente su un’immagine. Dopo qualche tentativo ho messo finalmente a fuoco.
Ecco che cosa sembrava. Era simile al raschio lento e grave causato dalle zampe di un pesante armadio, mentre viene trascinato a fatica lungo il pavimento di una casa, ma una casa molto grande e spaziosa, che si trova in un luogo del tutto imprecisato, in alto, sospesa a qualche centinaio di metri sopra la testa. Somigliava al rumore di un trasloco o allo spostamento di una cattedra in un’aula scolastica. Una specie di trasloco celeste, anche se non è il caso di fare poesia su un rumore che si presenta con delle caratteristiche così famigliari, compatibili, anche se dislocato in una dimensione aerea. In quegli istanti mi sono sentito vicino alle fantasie dagli antichi e come loro sono stato tentato di credere che tra le pareti del vulcano ci fosse davvero un ciclope intento a lavorare e ad armeggiare con degli attrezzi.
Una settimana dopo il weekend a Stromboli mi trovo a colazione in casa di mio fratello, da tutt’altra parte dell’Italia. Vedo su una mensola Scritti di viaggio, di combattimento e di sogno, una raccolta di testi di un autore che amo: Antonio Moresco. Vado dritto al primo testo, senza sfogliare avanti e indietro. S’intitola “Il vulcano”. Mi metto a leggere avidamente, mentre bevo il caffè. «Odore di combustione, in giro, tra le pietre vulcaniche, sulla spiaggia carbonizzata […] Le ombre. Di sera, nelle stradine senza illuminazione […]». Moresco sta parlando di Stromboli. Dopo un paio di pagine, Moresco descrive così la voce del vulcano: «Camminando per la stradina tra le canne che porta all’Osservatorio, ho sentito per la prima volta la voce del vulcano. All’inizio non ho capito di che cosa si trattasse. Sembrava che qualcuno stesse spostando pesantemente dei mobili nel cielo. Ho alzato gli occhi e, proprio sopra di me, ho visto uno dei suoi crateri che fumava».
Ci sono rimasto di sasso. La stessa immagine si è modellata tanto nella mia mente quanto in quella di Antonio Moresco. Una coincidenza? Lo stupore è durato qualche minuto, poi si è insinuato un dubbio. Molti anni fa, forse venti anni fa, avevo letto un libricino di Moresco, Il vulcano. Scritti critici e visionari, pubblicato nel 1999 da Bollati & Boringhieri. Scritti di viaggio, di combattimento e di sogno è invece un testo successivo, poi ripubblicato nel 2019 per SEM. Raccoglie diversi lavori di Moresco, compreso, evidentemente, il brano originariamente presente ne Il vulcano, che dava il titolo alla vecchia raccolta. A quel punto ho avuto il sospetto che da qualche parte, sigillata in una microscopica fessura della testa, del cranio, si fosse conservata integra quella riga di Moresco, tanto che a più o meno vent’anni di distanza, il cervello, con una specie di colpo di reni, è andato a recuperare la metafora dei «mobili nel cielo», associando il ricordo del frammento letterario a ciò che si è esperito sul momento.
Ma come è stato possibile che quella riga sia rimasta intatta, come sottovuoto e pronta all’uso per tutto questo tempo? Com’è possibile che una memoria venga dimenticata e conservata al tempo stesso? O è forse più vicino alla realtà dei fatti che io abbia in realtà dimenticato la riga di Moresco, mentre la voce che viene su dal cratere, per le sua morfologia, si presta naturalmente a essere associata alle immagini dell’armadio trascinato? Chi è in grado di rispondere a queste domande sulla natura della mente e della memoria? La magia o la scienza? Secondo me, nessuna delle due. Soltanto la letteratura può agitarci di fronte agli occhi uno straccio di risposta.