Sul conto di «Isn’t she lovely?»
Sul conto di una canzone, Isn’t she lovely?, mi sono sbagliato. Tutte le volte che mi è capitato di ascoltarla, in radio o alla tv, mi sono puntualmente sbagliato. Ho sempre dato per scontato che la canzone di Stevie Wonder fosse dedicata a una donna, non so se vera o immaginaria. Rapito dalla giocosità e morbidezza della melodia, e a partire dai frammenti di testo che mi erano immediatamente comprensibili, ho sempre immaginato versioni diverse della seguente scena: l’autore del brano, Stevie Wonder, osserva una donna; dato che Wonder è non vedente, dovrei supporre che la osserva mediante il suo speciale senso interno e che della donna avverte esclusivamente il suono e la vibrazione, ma come ascoltatore immedesimato nel cuore del racconto, sono più propenso a supporre che Wonder, il mio avatar, veda la donna, che la veda a occhi aperti, come io potrei vederla, magari mentre questa donna cammina lungo un marciapiede. Wonder, nella mia fantasia, resta colpito dall’apparizione. È impressionato dalla grazia e dalla freschezza che sembrano cucire un abito invisibile intorno alla donna. Stevie Wonder è così investito dalla visione che prova un urgente bisogno di condividere, un bisogno di estrarsi dal petto ciò che prova e mostrarlo ad altri esseri umani, forse per cercare una conferma ai propri stupori, e perciò pensa di convocare virtualmente miliardi di altri individui, tutte le persone che ascoltano e ascolteranno in futuro la canzone, per rivolgere a tutti la domanda che dà il titolo al brano: «Isn’t she lovely?». Vuole sapere se è impazzito o se anche altri vedono lo splendore di questa donna. E poi si ripete e incalza, alternando un paio di sinonimi: «Isn’t she pretty?», «Isn’t she wonderful?». Accade anche quando si fa vedere a qualcuno la foto di una donna che ci piace: guarda, guardala bene, che ne pensi? Non è bellissima? In realtà, come molti eccetto il sottoscritto sapranno da sempre, Isn’t she lovely?, pezzo pubblicato nel 1976, non era dedicato a una donna, ma a una bambina di nome Aisha, nata il 2 febbraio 1975, figlia di Wonder e della compagna Yolanda Simmons, detta Londie e citata in un verso del brano («Londie, it could have not been done/ Without you who conceived the one»). Io l’ho scoperto con quasi cinquant’anni di ritardo.
Ho riascoltato il pezzo qualche giorno fa, dal principio alla fine. È stata una riscoperta, una nuova epifania. Isn’t she lovely? è un classico e come tale è stato trasmesso migliaia di volte in radio, in tv, dagli altoparlanti dei supermercati e dalle casse di locali, bar e discoteche. Siamo abituati ad ascoltarla in modo distratto e spesso solo in parti, monca dell’attacco o della fine. Riascoltandola per intero, invece, si scoprono alcuni elementi preziosi. Entriamo in un nuovo universo di significati. Intanto il brano inizia con la registrazione del pianto di un bambino appena nato, insieme a un groove di basso e batteria digressivo, interlocutorio, come se fosse in realtà un bridge o la parte centrale del brano, però anticipata e spostata all’inizio. Quindi Isn’t she lovely? inizia con una falsa partenza. Come se entrassimo in una casa non attraverso la porta, ma fossimo direttamente materializzati al suo interno, magari in un corridoio che porta da una stanza all’altra. Poi c’è il lungo assolo di armonica di Wonder, ripetuto più volte lungo il brano. Si tratta di un’armonica cromatica, per l’esattezza, strumento di cui Wonder era un virtuoso. La melodia cangiante, sciolta, instabile, libera, sembra dapprima voler imitare la crisi di pianto e gli strilli di un neonato e poi abbracciare e consolare il bambino, che in questo mondo si sente comprensibilmente sperduto e disorientato. Durante l’assolo, che si distende lungo tutta la seconda metà del brano, torniamo a sentire la voce di un bambino, poi quella dei genitori e infine accade qualcosa di magico e straordinario. Al minuto 5,00 Wonder inserisce nel mix la traccia di una registrazione ambientale e ci porta così tra le piastrelle di un bagno di casa, introduce l’ascoltatore in un quadro di grande intimità e per alcuni secondi lascia che le nostre orecchie assistano alla scena di un bagnetto, con il corpo del bambino che viene appoggiato sul pelo dell’acqua, circondato dalle attenzioni e dalle vocione di suo padre e sua madre, che devono apparirgli tanto gutturali e incomprensibili, quanto vicine e rassicuranti. Una manciata di frammenti acustici è sufficiente a restituirci la spazialità del luogo e la posizione dei corpi. Immaginiamo la creatura, parzialmente immersa in una vasca o in una bacinella di plastica, sorretta da un paio di braccia, mentre scruta con occhi lampeggianti i grandi volti dei genitori, che vede incombere dall’alto come ciclopi. L’intuizione poetica di Wonder, mettendo in scena il contatto tra l’acqua e il bambino, con lo sciabordio dell’acqua nitido e in primo piano, evoca il cerimoniale dell’abluzione, un rito primordiale, sacro, carico di simbologia, che però, in questo caso, resta primariamente familiare, domestico e soprattutto gioioso. Quasi una fotografia degli anni Settanta.