Z come Zoom o Zavoli
Se domani un ex brigatista presentasse un libricino di memorie in un circolo ARCI, è quasi certo che un consigliere comunale convocherà una conferenza stampa per gridare allo scandalo. Ed è altrettanto probabile che alla conferenza stampa seguirà un articoletto su un quotidiano locale e un po’ di rumore sui social. Eppure Sergio Zavoli tra il 1989 e il 1990 portò decine di ex terroristi in prima serata tv, per 18 puntate. Oggi sarebbe impensabile. La trasmissione si chiamava La notte della Repubblica.
Immaginate la difficoltà anche solo di coordinamento con tribunali e autorità penitenziarie. E la complessità politica e storiografica nel gestire un materiale così incandescente. Come furono scelti gli “ospiti”? In nome di quali valori la Rai decise di dare voce ai protagonisti di una storia che all’epoca si era conclusa da pochissimo? Ci fu unanimità o dibattito prima di approvare il programma di Zavoli? Zavoli riuscì a lavorare in autonomia o subì le interferenze dei partiti dell’epoca al potere?
Senza considerare che gli ex terroristi, da molti ritenuti dei gran narcisi, in realtà erano in maggioranza dei tipi serissimi, refrattari allo spettacolo, abituati a spaccare in quattro il capello e a ponderare fino in fondo ogni decisione. La scelta di raccontarsi in tv non potè prescindere, immagino, dall’aver stretto un patto di fiducia con la testata e con il conduttore del programma. Per uno come Mario Moretti fu la prima e unica volta sul piccolo schermo. L’intervista a Moretti, con le pause e i sospiri che la punteggiano, oggi è un documento sulla durata e sulle possibilità del tempo televisivo quando non è spezzato ed è gestito da un giornalista capace di dare spazio all’intervistato.
Ecco che allora il tempo si ricompone e qualcosa accade anche nella ritrovata linearità dei processi mentali di chi ascolta. La grandezza di Zavoli o di Biagi o di Ugo Gregoretti era una conseguenza della tv pubblica in regime di monopolio e viceversa. Dagli anni Sessanta fino alla Rai Tre di Guglielmi, la Rai è stata una specie di Cappella Sistina della cultura e della società italiana esistita in quei trenta, quarant’anni. La sigla della Notte della Repubblica è una colata al rallentatore di ambient isolazionista. Impensabile oggi. Anzi, volendo si può contestare il mood e la mestizia di un brano che alimentava una percezione integralmente funerea di un periodo storico.
Bisogna dire che ci siamo pure noi istupiditi come spettatori. Che il nostro cervello non è più quello di un tempo. Quanti di noi oggi sono capaci di seguire, rinunciando alla compulsione al commento e senza perdere il filo e la concentrazione, interviste come quelle di Zavoli agli ex terroristi, così austere, fatte di sola parola e maschera del volto, niente grafica, niente musiche? Non ricordo più se mio padre o qualche giornalista aveva ribattezzato quella trasmissione “Tele Dio”, per la gravità e il silenzio chiesastico in cui era immersa la scena.
Oggi quella presentata nella Notte della Repubblica ci sembra una messa in scena ascetica e intransigente, ma in fondo la sua radicalità non era che il risultato di una rigorosa deontologia giornalistica. L’arte di ascoltare, sia in chi fa le domande sia nello spettatore seduto a casa in quel finale di anni Ottanta, è il lascito della tv di Zavoli, penso. Le dirette su piattaforme come Zoom o Streamyard, alle quali ci siamo abituati in questi mesi di pandemia, in qualche modo ripongono al centro il volto e la parola e perciò sono più zavoliane della vecchia tv.