Ennio Morricone e il barattolo
Com’è possibile restituire in un solo frammento il cervello musicale al lavoro di Ennio Morricone, vista la produzione sterminata (oltre cinquecento colonne sonore, diceva il critico Guido Zaccagnini poco fa in radio), le fasi, la poetica che spazia tra humor, malinconia, elegia del passato, intuizione del futuro, distopia, utopia, erotismo, paura, riso, dolore, spavento, sacro, paesaggio, avventura? Un’idea ce l’ho. Si tratta di un brano per il quale Morricone ha lavorato agli arrangiamenti.
Possiamo intendere questo brano come un haiku giapponese, nel quale troviamo sintetizzati al massimo gli estremi di una vicenda intellettuale (il pop e l’avanguardia) e insieme l’applicazione di un’intelligenza euristica purissima e forse perfino un pezzo della fanciullezza di Morricone. È un brano del 1960.
È possibile che Morricone, da piccolo, sia stato catturato dal suono di una lattina che rotola sul selciato, a Trastevere, sentendo in quel ra-ta-ta-ta il vagito di una melodia. E poi, come un personaggio di Leone in C’era una volta in America, è possibile che Morricone si sia immerso a recuperare il ricordo d’infanzia, e infine quel suono di lattina lo abbia rimesso a lucido e, operando come una macchina, come uno di quei campionatori che entreranno in commercio trent’anni più tardi, utilizza il rumore, tanto come ritmica che come madeleine, e ci costruisce una canzone, strana e commovente, che viene dal futuro: Il barattolo, cantata da Gianni Meccia.