Una pizza con Antonio Iosa
Giovedì 29 agosto è morto un signore di 85 anni. Si chiamava Antonio Iosa. Era di origini pugliesi ma viveva a Milano fin dagli anni Cinquanta. Una sera di qualche anno fa andammo a mangiare una pizza insieme, se non erro dalle parti di piazzale Accursio. Non ci conoscevamo. È raro che due estranei s’incontrino per una pizza. La memoria di quella sera ora è molto sbriciolata e l’episodio mi riappare in piccoli pezzi, così come una persiana o un tratto di via Crescenzago possono balenare in un verso di Milo De Angelis. Forse a Iosa avevo scritto un’email, non ricordo. Comunque lui mi aveva risposto dicendomi «andiamo a mangiare una pizza e ti racconto».
Lo aspettai seduto al tavolo di questo locale dove Antonio aveva prenotato. Lo vidi arrivare e farsi largo tra due file di tavoli, con i lembi di una grande sciarpa che gli pendevano sulla giacca e zoppicante. Ci restai di sasso e mi prese di colpo una specie di vergogna. Vergogna, ma pure stupore, insieme a un desiderio di ritrattare e pentirmi per un errore, un fraintendimento, un’idea soggettiva mai sottoposta a revisione che mi ero portato dietro per tutta la vita. Sapevo che Iosa era un «gambizzato», ma non che fosse rimasto zoppo. Nella mia rimpianta inconsapevolezza di bambino, e nella fattispecie di bambino comunista vissuto a contatto con le cronache radiofoniche e televisive dell’ultima coda della lotta armata, comunista in uno dei tanti modi in cui lo si poteva essere in una famiglia comunista italiana tra gli anni ’70 e ’80, voto al PCI ma qualche trascorso extraparlamentare, avevo sempre pensato che il neologismo «gambizzare» indicasse una tecnica usata dalle Br per graziare il bersaglio, mirando alle gambe. Quindi una modalità di colpire che non solo rivelava la scelta di non uccidere, ma testimoniava la presenza di un codice morale a orientare l’azione dei terroristi. Forse celava perfino l’ombra di un intento pedagogico? Sì, stando al motto «colpirne uno per educarne cento». Di conseguenza, e in modo comunque innocente, dentro di me era stato stabilito che la vittima di un’azione terroristica fosse il portatore di una colpa, di una malefatta e che il terrorista fosse un giustiziere, guidato da un codice morale che non escludeva la pietà. Evidentemente volevo umanizzare un gesto che un’altra parte del bambino in me non riusciva a capire e accettare. Sono stato talmente prigioniero di questo schematismo, di questo psicologismo infantile ed eufemizzante, che ho sottovalutato per tutta la vita le reali conseguenze di una gambizzazione.
Gambizzare è un verbo che mi è stato famigliare fin da bambino e poi è diventato una parola che ho continuato a ritrovare nei libri di storia letti da adulto, ma non avevo mai ben realizzato che cosa significasse. Fino a quando, un giorno, non mi si è parato di fronte un gambizzato. Antonio Iosa che, tra le luci morbide di una pizzeria da quartiere periferico milanese, si avvicina al tavolo e si presenta con una stretta di mano. Una pizzeria di quelle in cui entri e subito avverti il contrasto tra i tavoli in ordine e ben apparecchiati e tutto il percorso irregolare e abrasivo che ti sei appena lasciato alle spalle. Un luogo perfetto per dirsi delle cose.
Il lirismo minimo e urbano offerto dall’occasione di una pizza in compagnia mi è stato sempre presente, ma chi me lo ha fatto davvero notare è stato Emidio Clementi in una pagina del romanzo La notte del pratello: un ragazzo si rivolge a una ragazza affacciata alla finestra di una casa occupata, da qualche parte a Bologna, non è la prima volta che lui passa e nota quella ragazza alla finestra, e ogni volta c’è stato uno sguardo, e allora al quarto o quinto episodio lui rompe il ghiaccio e le dice: «Ti va di mangiare una pizza stasera?».
Iosa era stato ferito dalle Br colonna Walter Alasia nel 1980 e trent’anni dopo zoppicava ancora. Per tutta la vita è stato perseguitato dai dolori alla gamba. Probabilmente mi aveva pure descritto questi dolori, il punto in cui si manifestavano, l’intensità, la frequenza. Le cronache raccontano che a partire dal 1980 ha subito una quantità impressionante d’interventi chirurgici. La Walter Alasia gli aveva sparato per vendicare i morti della strage di via Fracchia (quattro militanti delle Brigate rosse uccisi dalle forze dell’ordine nel corso dell’irruzione in un covo a Genova) e in subordine per colpire la sua attività all’interno del Carlo Perini, il circolo culturale di Quarto Oggiaro dove avvenne il ferimento di Iosa e di altre tre persone. Non esisteva nessuna relazione tra i quattro gambizzati del Circolo Perini e i morti di via Fracchia, se non il fatto di appartenere a una realtà di quartiere collegata al cattolicesimo democratico, cioè quella grande corrente interna alla DC e al mondo cattolico che aveva sostenuto il dialogo con il PCI, anche a partire dal tema della lotta al terrorismo.
La sua missione, per come me l’aveva spiegata quella sera in pizzeria, era costruire nel quartiere una politica di solidarietà e rinascita più o meno ispirata ai valori del compromesso storico. Contava meno di un consigliere comunale. O forse no, contava più di un consigliere comunale o di un qualche quadro di partito, e la sua azione dal basso aveva una grande ricaduta sulle vicende della comunità. Quella sera mi raccontò tutta la sua storia, con la giovialità e l’esuberanza della generazione cresciuta tra le macerie, lui pugliese milanese, la parlata del sud preservata ma resa più svelta dalla vita in città, testimone vivente del dopoguerra seduto di fronte a una pizza e a un tovagliolo di carta, custode entusiasta delle memorie del lavoro politico-culturale nella periferia della grande città industriale, militante cattolico e mediatore all’epoca del terrorismo, scioccato dal ferimento subito, in qualche modo ancora cristallizzato nel momento assordante dello sparo, tanto che quel primo aprile 1980 è diventato lo spartiacque della sua esistenza.
Da qualche anno era il presidente dell’Aiviter, l’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo, ma forse non lo era ancora nel momento in cui ci siamo conosciuti. Anche se non gliel’avevo detto, non ritenevo che la storia di quegli anni andasse raccontata solo dal punto di vista delle vittime, ma pure con il racconto e la memoria problematica dei terroristi e con quella di milioni d’individui dispersi e frammentati che avevano preso parte alle lotte di fabbrica e studentesche, cioè una storia immensamente perduta rispetto al tempo in cui siamo incastrati oggi, e che quindi fosse importante raccontare in modo ampio, organico, storico e non puramente giustiziale… ma questo forse lo pensava pure lui. Ero un po’ troppo di sinistra per i suoi gusti e me lo aveva fatto notare, in un modo un po’ paternalista che di solito non riesco a digerire (e tuttavia, mi chiedo: quando ti hanno sparato a una gamba, la tenacia della tua testimonianza potrà mai essere un paternalismo o forse sarà sempre il precipitato di una volizione che nella sua ostinazione non possiamo capire fino in fondo?), però era lì davanti a me, con la sua faccia onesta e la sua storia, cosa che non capita spesso. Tanto spesso non succede neppure che qualcuno che non conosciamo dica, una sera, «andiamo a mangiare una pizza e ti racconto».