Suspiria è un film antimatriarcale?
Un articolo uscito per una preziosa rivista web, I Diavoli, mi offre lo spunto per tornare su un film, il Suspiria di Luca Guadagnino, e per tentare un ragionamento che va oltre il cinema e riguarda l’angolatura critica «femminista», a volte unilaterale, con cui ci accostiamo all’interpretazione di fenomeni di diversa natura, compreso un remake cinematografico. Secondo l’articolo «il film ha il merito di portare in scena la potenza corporea e intellettuale delle protagoniste quasi ad allegorizzare una liberazione della donna rimasta, troppo a lungo, sopita». Per quanto breve, l’articolo è ricco di suggestioni e osservazioni non banali. L’affermazione riportata tra virgolette è senza dubbio plausibile, ma credo potrebbe coesistere, un po’ come nel famoso esperimento del gatto di Schrödinger, con un’altra lettura del film (quella del sottoscritto), secondo la quale accanto al discorso femminista – che, senza dubbio, c’è – opera nel film anche un discorso antimatriarcale. In un gruppo di streghe divorato da una ferocissima lotta intestina per il potere, agito da un progetto di dominio, capace di evirare senza pietà servendosi di un gelido uncino metallico, e di costringere un anziano, dolente e indifeso psicanalista junghiano alla prona e traumatica visione di un sabba infernale, possiamo vedere non soltanto un’allegoria di liberazione della donna ma, insieme e compresente, un’allegoria del matriarcato come virtuale configurazione futura del potere, per mezzo del quale gruppi di donne, ritenendosi intrinsecamente migliori e magari naturalmente più sagge e democratiche del fallo nel governo dei viventi, decidono di cancellare o sottomettere gruppi di uomini inermi. Si tratta di un’ipotesi politica o fantapolitica, una tra le tante, inscritta nel presente instabile e metamorfico del nostro tempo, accanto ai complementari possibili futuri contenuti nella noce aperta della rivoluzione femminista e nel giusto dispiegarsi dell’autonomia femminile. Credo che il film di Guadagnino risulti molto più coraggioso e visionario se guardato da questo punto di vista, cioè nel suo implicito discorso antimatriarcale, che non come ennesima opera, sopra e intorno la liberazione femminile, scritta per compiacere la stampa liberal o le timeline progressiste di Twitter.
L’articolo sui Diavoli passa da Suspiria a un commento sull’opera teatrale Le baccanti di Emma Dante e, a proposito di quest’ultima, conclude dicendo che «la rivoluzione è donna». Si tratta di un’affermazione che dal caso Weinstein in poi, con modi, sapori e in contesti diversi, è stata ripetuta ovunque. Non certo nei bar o sui giornali conservatori, e non nella maggioranza dei luoghi di lavoro, probabilmente, ma affermazioni di questo genere, esposte in articoli più o meno approfonditi, o a corredo di notizie più o meno interessanti, hanno letteralmente saturato alcuni settori della stampa e, di riflesso, dell’opinione pubblica. Vale la pena, allora, chiedersi che cosa significa un assoluto come «la rivoluzione è donna». Forse che nella donna e nella sua anatomia esiste un elemento intrinsecamente rivoluzionario? Io non credo. Significa semmai, suppongo, che nella storia culturale e materiale delle donne, che è una storia di dolorosa subalternità al cosiddetto «patriarcato», non può esservi che un potenziale «rivoluzionario», in quanto storia di una minoranza. Così come nella vicenda dei popoli e delle classi oppresse, che è una vicenda di subalternità alle nazioni e alle classi dominanti, è esistito un potenziale rivoluzionario. Ma nel momento in cui la donna cospira con altre donne, come in Suspiria, e si costituisce in gruppo chiuso di potere, allora, che cosa succede? Si tratta di una rivoluzione o di una nuova reincarnazione del peggiore potere? Ecco, mi sembra che in Suspiria si parli anche di questo.