Una foto per Severino Cesari
Giusto qualche giorno fa leggevo la quarta di copertina di un romanzo in uscita. Si chiama Un attimo prima e l’autore è Fabio Deotto. Parla di un uomo che ha perso il fratello e di una terapia basata su una cosiddetta «scatola specchio». In queste poche righe ho avvertito un sapore. Questa è una storia contemporanea, mi sono detto. Vorrei poter trovare il tempo di provare a leggerlo. È un libro che m’interessa, ho pensato. Ed è un testo di Stile Libero. Il luogo in cui ho conosciuto per la prima volta Severino Cesari, fondatore di Einaudi Stile Libero insieme a suo fratello Paolo Repetti (dico «fratello», perché così Repetti lo ha appellato, in queste ore, aggiungendo «mio adorato» a «fratello»), è uno spazio sottile, dove si arriva per mezzo della parola scritta.
Non ci siamo incontrati nel mondo reale, infatti. Naturalmente, prima di conoscerlo, avevo sempre sentito parlare di lui. Quando seppi che avrei pubblicato con Cesari, ne accennai a un’altra persona a me cara, Daria Bignardi, e lei, in piedi a qualche metro di distanza, oltre il tavolo comune di una redazione, quindi un tavolo carico di computer e cumuli di quotidiani e riviste, mi disse sobriamente e, in un certo senso, lapalissianamente: «Beh, lui è il più grande di tutti». Ma insomma, come ho conosciuto Severino? È accaduto qualche anno fa, il giorno in cui arrivò sulla posta un messaggio via Linkedin. Qualcosa come «Ciao Ivan, ti leggo e ti seguo». Era firmato «Severino Cesari». Non mi sembrò verosimile, plausibile, che Severino Cesari mi avesse scritto e soprattutto che, per farlo, avesse scelto non Facebook o l’email, ma l’inconsueta messaggistica di Linkedin. All’inizio pensai che si fosse trattato di una sorta di Bot e che questo Bot stesse cercando di entrare nella mia casella di posta. Non ero abbastanza istruito sul comportamento delle intelligenze artificiali e di conseguenza non potevo dispensarmi da una certa quota di «pensiero magico». Poi mi arrivarono altri messaggi ed essendo Severino apertamente umano, umanamente cristallino, allora diventò chiaro che, dall’altra parte, non c’era un robot, ma qualcuno che stava bussando e che voleva davvero parlarmi. Passò del tempo. Cominciai a dedicarmi a un progetto. Come tanti in questo mondo cominciai a scrivere un libro, in un periodo in cui potevo permettermi di
farlo. Chiuso in casa, dal mattino fino a notte inoltrata. Con la sola eccezione di un pranzo o di un caffè al bar con Valerio Millefoglie, un amico che, coincidenza, aveva pubblicato con Einaudi Stile Libero.
Fuori il cielo era sempre grigio, basso, incombente, e mentre prendevo il routinario caffè con Valerio, sentivo nelle nuvole scure la presenza di una forza che proteggeva il mio atto creativo. Prima, durante e dopo il caffè, non cessava il richiamo magnetico del manoscritto e del file aperto sul computer: dai, torna a casa, vieni qui, ti aspettiamo…
Un bel giorno Monica Malatesta, l’agente con la quale lavoro, cominciò a propormi presso diversi editori, tra cui Stile Libero. Passò altro tempo, ma ben poco tempo, in realtà, e Severino mi scrisse all’improvviso un’email con allegata la sua scheda di lettura.
L’email di Severino fu un razzo bengala sparato nel buio. Aveva letto il manoscritto in una notte. In quella scheda trovai espressioni come «purgatorio di anime che si sfiorano», «menando coltellate», «misteriosa voluttà». Mi sentivo individuato, messo a fuoco, riconosciuto nel profondo. Finalmente compreso e apprezzato, come forse non mi era mai capitato nella vita. Severino mi sembrò un antico greco che dopo aver bevuto una coppa di ciceone aveva visto con chiarezza attraverso il filamento dello stile, e della
scrittura, perciò dentro la mia storia umana e la mia persona.
Nella stessa email, mi fece capire che avrebbe voluto fare lui quel libro. E così andò a finire. Cominciò un altro carteggio, questa volta con l’altro editor di Stile Libero, Rosella Postorino. Severino era molto malato e fu Rosella a gestire con poche e precise indicazioni, quindi con collaudata intelligenza editoriale e umana, la gestazione del manoscritto. Severino era molto malato, dunque, ma un giorno riuscii comunque a incontrarlo. Mi trovavo nel terrazzo della sede di Stile Libero nel quartiere Prati, a Roma. Con Rosella e Francesco Colombo ci eravamo spostati al sole, uscendo dalla piccola sala in cui vengono ricevuti gli autori. E qui, all’aperto, vidi arrivare Severino, vestito con una giacca scura e un cappello. Aveva un sorriso sincero, che mi confermava del fatto che ci eravamo già conosciuti, grazie alle parole che ci eravamo scritti, e che quindi eravamo diventati amici. Sono consapevole che questa sequenza, alla presenza di altri autori ricevuti in casa editrice, doveva essersi ripetuta troppe volte, come in un ciclo karmico senza fine, ma era chiaro che Severino si assegnava il compito di rivivere la scena ogni volta con un calore umano reale e la verità solare del suo corpo.
Da una manica della giacca spuntava un guanto bianco che avvolgeva la mano destra. Non sapevo a causa di quale ennesima complicazione della malattia fosse costretto, in quel momento, a indossare un guanto bianco. Per un istante mi apparve nella mente un ricordo incongruo: la figura tremolante di Michael Jackson, nelle sue ultime apparizioni in pubblico, all’epoca in cui indossava dei guanti bianchi e si schermava dietro un paio di occhiali da sole. Severino era altrettanto fragile, debilitato, ma nel sorriso e nella dolcezza era completamente vitale ed espressivo. Uno spirito letterario e una creatura ogni volta senziente. Dopo quell’incontro, non ce ne furono altri. Avrei voluto chiamarlo o scrivergli, ma ero paralizzato dall’idea di disturbarlo o di abusare della sua generosità
mentre era così gravemente ammalato. Così un giorno, per strada, ho scattato una foto di quel cielo grigio, basso e incombente, e gliel’ho spedita per email.