In India con la Realtà Virtuale
Negli anni 90 ho sperimentato, in una sala giochi a più piani di Parigi, un modello di Réalité Virtuelle. Di quei venti minuti mi è rimasta una vaga memoria: io che sparo nel buio a degli oggetti colorati, dopo aver calzato un casco e impugnato un’arma. Ricordo che, provando a guardarmi la punta delle scarpe, non c’era che buio, uno spazio senza fondo. II sistema tonico-posturale era disorientato dall’assenza di dimensioni e contorni. Solo togliendomi il casco, lo spazio fisico, e quindi anche le mie scarpe, erano tornati visibili – ma in una luce di colpo slavata e un po’ miserabile.
Qualche pomeriggio fa ero a Milano, la città dove vivo. Quindi mi trovavo nei luoghi noti della mia esistenza di ogni giorno. Eppure per mezz’ora circa, tra le 17 e le 17,30, sono stato trasferito e ricreato in una nuova zona del reale. Il mio corpo, afflitto da una digestione sempre complicata, era seduto sopra una seggiolina di plastica, al secondo piano del palazzo delle vecchie Officine Ansaldo in via Tortona, ma la coscienza era altrove. Nella sala chiamata «Ultrareal World», allestita da Fastweb Digital Academy e Milano Film Festival, l’esperienza di un mondo alternativo è stata incomparabile con quanto provato vent’anni prima, nella Francia di François Mitterrand.
Una volta indossato un paio di cuffie e un visore Samsung, è partito un palinsesto di cortometraggi cinematografici per Virtual Reality, girati con Tecnica 360°. Intorno è prima apparso un pianeta New Age, azzurrino e pacifico, fatto di rocce, di acqua gorgogliante, disabitato dall’uomo e dalla donna, popolato di funghi, muschi, coralli, dominato da un cielo sereno da cui cadevano adagio quelle che mi sono sembrate coccinelle. Questo era il primo cortometraggio, dal titolo Planet ∞. Poi sono stato in India. In India ho assistito al banchetto di una coppia, accovacciata in mezzo a un prato. Parlavano e sorridevano. Erano proprio di fronte ai miei occhi. Poco dopo la donna, in quel pomeriggio senza tempo, si è seduta con le gambe penzoloni sopra il ramo di un albero, e l’uomo la guardava adorante e lei, dondolandosi, si lasciava adorare; sono stato nella loro casa di fango e ho visto l’uomo recitare una filastrocca con la figlia; mentre in loro compagnia guardavo un film, proiettato sopra un lenzuolo in un cinema rurale, quei due genitori con la bimba piccola, seduti accanto a me, mi sono sembrati uniti da sentimenti così puri e presenti da sentirmi più che toccato: invaso. Ho viaggiato a bordo di un treno vecchio e malconcio. Il vagone era affollato di giovani indiani, seduti ovunque, in silenzio, addormentati o immersi in una pace senza pensieri, e qualcuno di loro mi guardava, come per chiedermi: «e tu chi sei? Che ci fai qua dentro?». Sono stato un cervo ucciso dai bracconieri e un uomo che soffre, sdraiato in un letto d’ospedale di fronte a una moglie che, in lacrime, vede il compagno morire; e infine mi sono incarnato nel progetto di un androide costruito in omaggio allo scrittore Philip K. Dick. Quest’ultima è stata l’esperienza più complessa e barocca. Nei panni dell’androide sono stato l’oggetto di una grande conferenza dove, come in un sogno, tutti mi guardavano. Una studentessa in particolare mi scrutava, interrogando, con la forza dei suoi occhi mobili e ingenui, la mia stramba natura di androide. Ma io non potevo svestirmi del mio involucro di virtualità e parlarle, come mi sentivo spinto a fare. In qualche modo, e paradossalmente, era il virtuale che, per mezzo dello sguardo innocente e curioso di una ventenne, mi chiedeva conto dell’effettività ontologica della mia esistenza. «Androide, chi sei? Puoi sentirmi? C’è qualcuno là dentro?». Ed io, paralizzato come accade nei sogni, vedevo tutto, ma non riuscivo né a parlare né a toccare quella creatura così vivida e umana. Il casco, nel frattempo, ha garantito un isolamento perfettamente ermetico. La sala del «Ultrareal World» avrebbe potuto prendere fuoco senza che io me ne accorgessi.
In questa esperienza di cinema per Virtual Reality, alla quale pare abbia partecipato anche il sindaco Beppe Sala, l’ambiente dentro il quale ci muoviamo è sferico e le figure sembrano sporgere verso lo spettatore con l’esuberanza di una sentimentalità e una corporeità accresciute. Quando il nostro sguardo viene cercato, il contatto visivo che ha luogo è origine di una forma d’intimità, paragonabile, per quanto riguarda chi scrive, solo a certi fenomeni vissuti in sogno.
Le applicazioni in campo civile, medico e scientifico sono innumerevoli. Ma soprattutto, così com’è accaduto per la pornografia in rete, le categorie di narrazione possibili, ritagliate sul gusto delle nicchie, sono potenzialmente infinite. Decine di YouTuber italiani hanno recensito sui loro canali diversi visori per Realtà Virtuale. Nel frame di anteprima del video li ritroviamo (tutti) immancabilmente sorridenti e con il casco in testa. Un’immagine che testimonia adesione al prodotto al di là di qualsiasi eventuale punto di vista argomentato nel video. La Realtà Virtuale, del resto, dopo l’acquisizione da parte di Facebook di Oculus, azienda creatrice del sistema più noto per Realtà Virtuale, potrebbe rappresentare la prossima evoluzione delle piattaforme sociali. Lo ha annunciato Marc Zuckerberg al Mobile World Congress di Barcellona, nel 2016, di fronte a una platea di centinaia di congressisti schermati da un visore Samsung. Per Zuckerberg, capitano d’azienda ma pessimo filosofo, non c’è mai fine al bisogno d’interazione e contatto tra le persone. Con «Facebook Spaces» infatti, applicazione disponibile in versione Beta per Oculus, possiamo già incontrare i nostri amici in un ambiente virtuale. «VR is better with friends», dice il claim nel video di presentazione.
Se quindi Facebook sempre di più disegnerà i propri servizi e interfacce pensando alla Realtà Virtuale, aspettiamoci la creazione di un nuovo enorme mercato e l’arrivo di una potenza onirica che potrebbe di nuovo cambiare, come ci ha insegnato Marshall McLuhan, il nostro sistema nervoso e la cultura umana. Non si tratta di temere il progresso tecnologico, ma la curva di velocità della sua crescita e del suo mercato, che prepara per gli individui la condizione di continui strappi cognitivi, costringendo l’uomo e le nazioni al passo delle macchine.