L’uomo sotto il sedile
Qualche notte fa ho viaggiato su un treno partito da Milano alle 20:40 con arrivo a Vienna il mattino. Ho trovato uno scompartimento per fortuna vuoto e lì mi sono sistemato. Ho letto e chattato per tutta la sera fino a quando non ho allungato i sedili, mi sono sdraiato, ho spento la luce e mi sono addormentato. Qualche ora dopo, quando il sonno era già profondo, ho sentito un rumore: qualcuno che apriva e richiudeva la porta entrando furtivamente nello scompartimento. Mi sono alzato di scatto e nel buio i miei occhi spaventati hanno incontrato quelli terrorizzati e febbricitanti di un giovane uomo di colore. Questo ragazzo mi ha detto una frase soltanto: «Io no documenti, no documenti», e poi ha fatto dei gesti con le mani indicando il vano sottostante i sedili. Voleva dirmi che aveva bisogno d’infilarsi lì sotto al più presto, prima che qualcuno lo trovasse. Naturalmente gli ho detto «Ok, ok» e lui è sparito sotto i sedili, come se fosse entrato dentro una scatola, lasciando cadere il coperchio sulla testa. Ho sentito le ginocchia e i gomiti strofinarsi contro le intercapedini dello scompartimento. Ho avuto il sospetto che quel corpo stesse non solo provando a ritirarsi il più possibile dentro l’interno del vano, per rendersi invisibile a un controllo, ma che stesse anche cercando di rincantucciarsi, come succede quando ci mettiamo sotto le coperte e un bisogno elementare di riposo e intimità curva gli arti e le vertebre fino a una posizione fetale. In quel momento letargico una sorta di consolazione ci viene incontro e ci conduce nel sonno.
È accaduto tutto molto in fretta. Nel giro di secondi il ragazzo si è sistemato, senza che neppure un pezzo di stoffa sporgesse da sotto le poltrone. Per i corridoi è passato qualche funzionario di polizia con la torcia – ci trovavamo probabilmente alla frontiera con l’Austria – ma nessuno è entrato o ha bussato. Dopo un’ora gli ho chiesto se andava tutto bene e gli ho passato una bottiglietta d’acqua che lui ha afferrato e ha portato rapidamente verso di sé nel buio del vano, poi gli ho chiesto di dove fosse – «where you come from?» – e ho sentito una voce da sotto il sedile che ha detto: «from Nigeria». Mi sono addormentato e più tardi, verso l’alba, l’ho sentito sgattaiolare fuori dal nascondiglio, aprire la porta e andarsene.
Tra i primi ricordi della mia vita c’è quello di uno uomo di colore dall’aspetto minaccioso, a torso nudo, che mi guarda e mi ordina di voltarmi e non guardarlo, mentre io, paralizzato dal terrore nel mio letto, non riesco a distogliere gli occhi. Naturalmente si tratta di un sogno della prima infanzia, ma così traumatico che è rimasto dentro di me per tutta la vita. Ora mi sembra che quell’uomo sia tornato, materializzato nella sagoma viva di un fuggiasco impaurito, apparso in una notte della mia vita adulta. Nel momento in cui ci siamo visti e conosciuti, con un’occhiata febbrile nel buio, lui ha subito cercato la mia solidarietà e complicità. Credo che mi abbia chiesto solidarietà e complicità non solo perché ne avesse un urgente bisogno, ma avendo fiducia che ci fosse la possibilità di ottenerle. Forse perché le aveva già incontrate in passato nella sua vita di migrante e clandestino. Il pensiero di questa possibilità, che non considero scontata in un treno che sfreccia di notte da una città all’altra di questa Europa, mi rincuora.