Pronto, parlo con Donald?
Qualche giorno fa, per un progetto di articolo che avevo in mente (e che poi è diventato questo articolo che leggete) ho alzato il telefono e ho cominciato a telefonare a quasi tutti i Donald con cognome italiano che vivono in Italia. Quasi tutti mi hanno riattaccato il telefono in faccia. La conversazione si è interrotta più o meno nel momento in cui ho pronunciato la parola “giornalista”.
Le domande che avrei voluto fare erano due: come mai ti è stato dato questo nome? E poi: come ti senti, oggi che l’altro Donald è il Presidente degli Stati Uniti? Ma non ho fatto in tempo a formulare la domanda.
Non essendo riuscito a parlare con queste persone, e a conoscerne il pensiero e le risposte, necessariamente ora sono costretto ad addentrarmi nel campo oscuro delle supposizioni. In tale campo oscuro ciò che mi sembra di poter intuire è che all’epoca in cui queste persone nacquero – io credo trenta o quarant’anni fa: quindi tra gli anni ’70 e gli anni ‘80 – vennero chiamate “Donald” a causa di un sogno americano dei genitori; un sogno di grandezza; un sogno e un atto di fede nel potere propiziatorio di un tale nome riverberante – che ha più di una consonante in comune con “golden”. L’altra sensazione che ho riguarda il fatto che oggi, nel momento in cui il loro omonimo è in procinto d’insediarsi nello studio ovale, queste persone hanno reagito nei confronti della stampa, incarnata per un istante nella mia voce al telefono, con l’identica diffidenza e disprezzo usati da Trump verso il cosiddetto establishment giornalistico (e politico). Nessuno mi ha detto “fuck you”, ma è comunque quello che ho avvertito. Fuck you.
Nel nome è scritto un po’ del nostro destino, ma questa, appunto, è solo una mia supposizione.