L’Unità, il corpo delle donne e il giornalismo
È uscito un articolo sulle pagine on line de L’Unità, il vecchio quotidiano per un po’ sparito dalle edicole e ora diretto da Erasmo D’Angelis. L’articolo è firmato da Alessandra Serra, docente di linguistica e traduzione dall’inglese all’Università della Tuscia. Si tratta di una risposta a un post su Facebook della scrittrice Michela Murgia che, a sua volta, aveva commentato questa copertina del mensile Marie Claire. L’articolo di Serra è molto interessante e può, a mio avviso, fare luce su questioni che vanno al di là del tema in oggetto (corpo femminile e rappresentazioni del corpo femminile).
L’articolo inizia con un Ieri Michela Murgia e, prima di arrivare al punto ortografico, la Serra riesce a denigrare la sua interlocutrice ben quattro volte: 1) per il fatto, in quanto ex candidata alla guida della Regione Sardegna, di aver perso una competizione elettorale – come se la cosa costituisse in sé una macchia; 2) s\qualificandola come intellettuale in via di definizione; 3) insinuando che in qualche modo stia solo facendosi pubblicità (“prossima alla pubblicazione di un nuovo romanzo”); 4) e infine lasciando intendere che, forse, ha messo un piede in un territorio culturale e semiologico che non conosce e non le compete (“è incappata in una rivista di moda”). Si prosegue, più avanti, vittimizzando la ragazza (Marthe Wiggers) fotografata in copertina di Marie Claire, attribuendo ai commenti comparsi sulla pagina di Michela Murgia un carattere persecutorio o violentemente denigratorio. Ma la discussione si è invece svolta in un clima di più che sostanziale di dialogo, rispetto, analisi. Ce ne fossero. Leggere per credere, specie gli oltre cento commenti al post del 17 ottobre, dove la Murgia ha chiarito e articolato quanto accennato il giorno precedente. L’articolo della Serra si conclude poi così: “Penso alle ragazze magre e insicure di oggi che hanno visto quel post di Michela Murgia, e dico a loro, fregatevene, tutta invidia”. Confermando nella chiusa la deliberata intenzione di attaccare personalmente il proprio interlocutore (e dimostrando un fraintendimento totale delle sue parole: ma non è troppo del contenuto della critica che vorrei parlare, ma dei modi e dell’invisibile struttura che la occasiona).
Il punto che pone questo articolo è quindi, a mio parere, un altro. Com’è possibile che un articolo del genere non sia rimasto ciò che è, ovvero uno sfogo personale, il quale può comodamente e legittimamente trovare spazio su una pagina Facebook o su una piattaforma di blogging, ed abbia invece trovato apprezzamento, riscontro, riconoscimento di dignità e poi ospitalità sulle pagine on line di un quotidiano, L’Unità, per di più – lo sappiamo – venerato, attribuito quasi ontologicamente e auraticamente di una sua auctoritas intrinseca, quindi perfino idolatrato e trasformato in feticcio cultural-editoriale per via del mito fondativo che lo ha nutrito nella dicitura “fondata da Antonio Gramsci nel 1924”, che da sempre ne affianca la testata? Com’è possibile?
La questione della qualità dei corsivi, delle notizie, dei commenti, dovrebbe interessare, ovviamente, qualsiasi testata, ma appunto, secondo alcuni, dovrebbe interessare particolarmente un giornale come L’Unità. Perché, quindi, un pezzo del genere finisce in homepage sull’Unità? Ora, io credo che alla domanda si possa rispondere in diversi modi. O Il pezzo della Serra è stato caricato senza essere letto – molto difficile – o si è deciso di metterlo in pagina pour epater le camrades, ovvero per provocare, scandalizzare i compagni, come un tempo lo si faceva pour epater le bourgeois, ovvero per provocare, scandalizzare i borghesi. E come, stavolta? Creando spazio per un’opinione che, nei contenuti, nelle pulsioni, nei toni personalistici, non avrebbe sfigurato su di un brutto giornale di centrodestra di qualche anno fa, quando L’Unità era posizionata in tutt’altro modo.
Ora, la battaglia contro i tabù, specie contro i propri e quelli dei propri lettori – così come scandalo e provocazione – è spesso sacrosanta, ma troppo spesso la si fa e la si è fatta in modo sbagliato. Come in questo caso. Quando per esempio si dà delle attempatelle alle cosiddette femministe d’antan, con i loro vecchi tabù e incrostazioni, dimenticando che molte di queste sono forse, o sono state, lettrici e lettori de L’Unita, e forse dicendo una cosa neppure poi così corrispondente, nella valutazione anagrafica. Ammesso e non concesso che sia condivisibile nei contenuti. Insomma, si finisce per incendiare stupidamente, per suscitare l’altrettanto stucchevole miele della solidarietà alla propria interlocutrice (cioè alla Murgia), e poi per spezzare un rapporto d’identificazione nel lettore, per procurargli un senso di smarrimento, quando egli vede sotto i propri occhi un’entità immemoriale e mitologica, L’Unità, non evolversi, bensì destrutturarsi e impoverirsi, nel momento in cui ospita interventi che – un pochino – possono ricordare la scena di un film buffo e profetico, il quale deve far parte dei suoi più cari ricordi cinematografici.
Ma forse, quindi, sotto c’è un’altra questione. Si è capito che questo intervento di Alessandra Serra, così mal argomentato e scomposto, avrebbe generato una po-le-mi-ca. Quindi traffico, denaro, click: vita. E io a questo punto penso, non del tutto provocatoriamente ma freddamente: come biasimare L’Unità? I giornali sono in perdita. Muoiono ogni giorno. L’Unità è già morta una volta, tra l’altro. A volte, forse, mancano proprio le condizioni per operare in direzione di scelte giornalisticamente decenti. Vengo al dunque: se L’Unità volesse davvero svolgere una provocazione degna, la quale interroghi strutturalmente il nostro presente, che marxianamente indaghi il fondamento stesso di possibilità delle proprie scelte editoriali, dovrebbe scrivere un altro pezzo, il cui titolo potrebbe essere: e se il giornalismo di domani fosse solo clickbaiting? Oppure: e se il giornalismo, compresa l’Unità, fosse sempre meno un valore e una funzione democratica, e sempre più una merce? Il finanziamento pubblico, magari riformato, serve proprio a non arrivare al punto di porci questa domanda.