In difesa del sindacato
Un post che difenda l’onore del sindacato. A tutela del bambino, che rischia di venir gettato via con l’acqua sporca. A protezione solerte dell’immagine del sindacato, che sento pericolosamente sbriciolarsi. Proprio come il suo business – i lavoratori e il lavoro – si è già sbriciolato, privato da un pezzo della dignità che gli è propria. Un post non tanto a sostegno dei pronunciamenti sindacali di questi giorni. E non tanto – o solo parzialmente – in polemica con Matteo Renzi. Semmai in polemica con una parte di pubblica opinione, con tanta emotività espressa qua e là sui social network. Con la coalescenza di status e tweet che ha generato nelle ultime ore un vasto, e inedito, discorso antipatizzante e d’odio nei confronti del sindacato, della CGIL, della sua segretaria Susanna Camusso. Inciso: non c’è niente di apparentemente scorretto, per esempio, nel dire o scrivere la Camusso. Eppure, chissà perché, in questo articolo più sostantivo, che nell’orecchio mi suona come un tutto attaccato lacamusso, ci sento una sprezzatura, un sarcasmo, un dileggio. Perfino una malcelata sfumatura di sessismo. Mi sbaglierò. Così come percepivo a suo tempo una volontà di scherno in lafornero.
Ho letto inoltre uno status, uno tra i tanti, timbrato da molti like e condivisioni, in cui si dichiara che i sindacati li odiano proprio i precari. Un’affermazione che dipinge in modo ancora più espressionistico e feroce il ritratto tratteggiato dal premier nel videomessaggio del 19 settembre. Quello in cui si racconta di Marta, 28 anni e di Giuseppe, 50 anni. Lasciando intendere che la CGIL avrebbe abbandonato a sé stessa un’intera generazione e diverse categorie di lavoratori. Cioè i precari e le partite Iva. Cioè me. Può darsi, senz’altro. Come se il partito di Renzi, tuttavia, si fosse indefessamente preso cura di quei lavoratori orfani. Come se non avesse, peraltro, partecipato al corteo immenso del marzo 2002, indetto dalla CGIL di Sergio Cofferati, proprio contro un primo progetto di riforma dell’articolo 18. Come se lo stesso Renzi non avesse a sua volta dichiarato, nell’aprile 2012 di fronte a Michele Santoro: “non ho trovato un solo imprenditore, in tre anni che faccio il sindaco, che mi abbia detto caro Renzi io non lavoro a Firenze o in Italia, non porto i soldi, perché c’è l’articolo 18. Nessuno me l’ha detto. Non c’è un imprenditore che ponga l’articolo 18 come un problema”.
Per cui la domanda rivolta alla CGIL in coda al videomessaggio – “Dov’eravate in questi anni?” – così colpevolizzante e al tempo stesso autoassolutoria, Renzi dovrebbe rivolgerla al proprio partito. Che, a differenza di un sindacato, ha avuto in questi anni responsabilità di governo. E senza considerare che è proprio nella intrinseca natura pulviscolare e frammentata del lavoro precario che si rende complicato un rapporto organico con la rappresentanza. Ma, ripeto, non è di Renzi, né dell’opportunità di abolire o ridimensionare l’articolo 18, né dei contenuti del Jobs Act, che si vuole qui parlare. Ma del flame, precisamente, e dell’odio che, tutto a un tratto, si è cristallizzato attorno al sindacato. Improvvisamente, e del tutto paradossalmente, diventato vera nemesi dei precari, delle partite Iva, dei lavoratori. Come se fosse stata una CGIL arpia e matrigna, e non diversi governi di centrosinistra e centrodestra, la responsabile, o il manutentore, di quella frantumazione contrattuale che ora il Jobs Act vorrebbe tornare a ridurre e semplificare.
Giusto qualche sera fa una ragazza mi diceva di trovarsi al terzo stage di fila, qui a Milano. Solo l’ultimo le era stato pagato con 300 euro al mese. Me lo raccontava con una specie d’isteria. Non c’era nulla, in lei, che si autopercepiva come un soggetto munito di propri diritti. Semmai tutto in lei parlava di un naufragio, con il tono di un’allegra disperazione, e di un mondo dominato da forze cieche e di natura. Dove non esistono diritti né sindacati, ma soltanto un vento forte che ti sposta a destra e a manca. Sentivo in lei il silenzio e la lettera morta dell’articolo uno della Costituzione. Il sindacato rappresenta una preziosa, vitale, assolutamente essenziale funzione, di cui si dovrebbe parlare con cautela, per via del ruolo che ha svolto e comunque svolge. Un po’ come quando si nomina la Presidenza della Repubblica. Di cui si dovrebbe parlare con rispetto e cognizione, a petto della storia incarnata, delle conquiste ottenute, fuor di retorica, col prezzo di sacrifici, di lotte, di umanità derelitta, picchiata e incarcerata. Ciò che io avverto, che mi sgomenta e mi appare violentemente inedito, sono il sarcasmo, il livore, i toni da Renato Brunetta, con cui una parte di pubblica opinione si è espressa in queste ore, specie nei social, nei confronti del sindacato. Ciò che mi stupisce è che quella parte di pubblica opinione corrisponde a tanti elettori e giovani simpatizzanti del PD e di Matteo Renzi. Perciò il livore, e un motteggio cinico che va oltre la critica legittima, lo spostamento del mirino e l’individuazione nella CGIL della propria nemesi, la sassaiola di tweet e status, mi meravigliano molto e mi hanno spinto a pensare che questo svuotamento del popolo di centrosinistra, questa perduta connessione sentimentale col suo vecchio sindacato, sia in parte dovuta agli errori e ai ritardi di quest’ultimo, ai suoi cosiddetti conservatorismi, ma in significativa parte lo si debba anche a una segreta erosione che si è protratta a lungo nel tempo. Vent’anni di pulizia del sistema e della macchina. Fuori e dentro di noi. Una perduta connessione sentimentale un po’ con tutto che brinda col cinismo tipico dei social. E questo spudorato antisindacalismo, conclamato e ineditamente da sinistra, è per me un indizio ulteriore di metamorfosi, di trasformazione interna e aggiornamento di un popolo, che a me, onestamente, un po’ stupisce e molto addolora.