Il sogno del jihad
Ho sognato che ero in guerra. Un sogno che documenta come la guerra sia già scesa dentro di me, in profondità. Nell’inconscio, si dice in questi casi. E adesso provo a condividere questo sogno con voi, dato che non riesco ad impedirmi tale gesto culturale, forse ridicolo e narcisistico, forse espressione sublime di civiltà, che ogni giorno guida sopra una tastiera le dita di noi umani, prevalentemente occidentali: raccontarsi, quindi, appuntare pubblicamente piccoli frammenti autobiografici anziché verità universali, e poi tali frammenti incorniciarli, incapsularli, imbottigliarli e postarli in rete tramite tasto invio.
Provo a raccontare questo sogno, come i bambini disegnano sui fogli bianchi i propri incubi, le proprie fantasie. Ma il mio sogno non somiglia a uno scarabocchio. È semmai come una fotografia tersa, assoluta, scolpita, in alta definizione, senza ombre, dove spiccano il colore cachi e il brillante verde oliva della montagna, delle piante, della pietra e delle uniformi. Nel sogno vedo un bivacco di mujaheddin scaldati dal sole e radunati sulla cresta di una montagna. Li osservo trovandomi sopra un’altra cresta, separata in linea d’aria solo qualche decina di metri. Infatti vedo l’assembramento perfettamente a fuoco. Così a fuoco che posso distinguere il contorno del viso, i capelli mori e sfolgoranti come roccia vulcanica, gli occhi ardenti, la perfetta concentrazione che modella i tratti del volto mentre ciascuno, durante una pausa, attende alla pulizia della propria arma, strofinando la canna del fucile con un panno o smontando e rimontando un caricatore. I mujaheddin non cantano, ma è come se lo facessero, dentro il petto e la mente sgombra, senza muovere le labbra. In piedi o accovacciati, ogni gesto comunica intimo, radicato convincimento, saldezza della decisione presa, interna armonia, totalità, coscienza granitica.
Io resto nascosto dietro un macigno, col mio fucile, lo zainetto, una borraccia. Ho una paura terribile. Non muovo un muscolo. Trattengo il respiro. Ho paura che lo scricchiolio dei miei anfibi sulla ghiaia possa propagarsi nell’azzurro del cielo fino a raggiungere le orecchie dei guerriglieri. Non lo so perché mi trovo lì, dietro quella roccia, né per che cosa stia combattendo. O meglio: non comprendo perché ce l’abbiano con me. Mi sento spacciato, solo. Di colpo ho la cognizione bruciante, netta, di non possedere risorse spirituali per affrontare il nemico. Di non avere la forza, la determinazione. Questa consapevolezza accompagna il risveglio ed è il piccolo testamento filosofico che mi viene lasciato dal sogno.