Un’ex pensioncina abbandonata e il mestiere di scrivere
È appena uscito in edicola il numero estivo di Nuovi Argomenti: si intitola Granturismo e contiene un mio racconto, su un episodio che mi è accaduto la scorsa estate. Si intitola
Dentro un’ex pensioncina abbandonata ho compreso qualcosa d’importante sulla scrittura e il giornalismo
Un giorno d’agosto, quasi al tramonto, percorrevo in bicicletta una strada costeggiata da un canale asciutto. Mi trovavo ad un centinaio di metri da un tratto di spiaggia non lontano da Forte dei Marmi. Ad un certo punto alla mia destra avevo notato un cartello: “Fondazione pro verbo villa verde”.
Per che cosa stava? Che cosa indicava? Il cartello si trovava al di là del canale, oltre un piccolo ponte in cemento armato. Dietro un arco di rovi, e un cancello metallico, c’era una vecchia pensione a tre piani, abbandonata, che probabilmente un tempo era stata collegata alle attività della Pro Verbo. Già da un paio di settimane, ogni volta che dal mare risalivo verso l’interno, mi accorgevo della presenza di case, e pensioncine, hotel, villette costruite tra gli anni ’50 e ’80, in stato di rovina e nascoste dalla vegetazione. Così, giorno per giorno, ho cominciato a parcheggiare la bicicletta, a spostare piccoli cancelli di legno o in ferro, che erano semplicemente accostati, e ad entrare dentro quelle proprietà private, incustodite e lasciate a sé stesse.
Questa nella foto era la dispensa della cucina di un hotel; l’altro nella foto a destra, con i cassetti aperti e i piatti, era il bancone piazzato dall’altra parte della stanza. Li ho trovati in fondo ad una infilata di sale coperte di vetri rotti, pezzi di soffitto caduto a scaglie, grumi di piccole feci seccate, buste di succhi di frutta mix, e rimasugli più espliciti di vita umana, come una scarpa destra o un pettine che intrappolava tra i denti un ciuffo di capelli.
Questa frazione di litorale, che si chiama Ronchi Poveromo e non è ancora Versilia, venne preferita a Forte dei Marmi da molte famiglie notabili del nord, oppure fiorentine e romane, che tra il 1930 e gli anni ’80 avevano costruito o acquistato qui la seconda casa. A Ronchi l’estate abitavano il disegnatore Guido Crepax, il pittore e scrittore Alberto Savinio, il costituente antifascista Piero Calamandrei, il regista cinematografico Camillo Mastrocinque, lo storico Alessandro Galante Garrone, l’attore di cinema e teatro Vittorio Mezzogiorno e sua figlia Giovanna, e molti altri. E prima degli anni ’30: Rainer Maria Rilke, Thomas Mann, Aldous Huxley. E oltre a loro tanti piccoli industriali, imprenditori di rami disparati, professionisti benestanti.
Le strade, asfaltate dopo la guerra, sono state battezzate con nomi floristici. Via dei Fichi, via degli Ontani di Ponente, via Delle Foglie. Sono molto strette, spesso a zigzag, e formano un dedalo. L’area è immersa in una foresta che arriva quasi a ridosso del lungomare e protegge in una privacy naturale ville, o casupole, e fazzoletti di terra recintata.
In una villetta ho trovato, in alto contro un lucernario, questa specie di rosone ligneo, incastrato in un ballatoio al secondo piano.
In ciascuna di queste case esplorate ho trovato i sanitari spaccati, fracassati. Così come le scatole elettriche strappate dalle pareti e gettate sul pavimento; e poi, sempre: decine di cavi aggrovigliati tra loro, come serpenti in un rettilario, sparsi a terra tra i calcinacci, dopo essere stati sfilati dalle condutture. Come se l’edificio fosse stato scuoiato. Ho poi scoperto che water, vasche e lavandini vengono di solito messi fuori uso e distrutti per impedirne l’utilizzo ad eventuali occupanti. Mentre i cavi elettrici vengono depredati per cavarne fuori il rame che poi viene rivenduto non so dove.
Posate sulle pareti di queste case e pensioncine anni ’60, tra le ragnatele c’erano decine di falene, dalle ali molto grandi, che sembravano straviziare in quelle sale di decadenza e malora, come fossero farfalle stanche di essere belle, deluse, stanche di sedurre, di mostrare i colori, che avevano deciso di chiudersi in casa, a ingrassare, a vivere il resto della vita in vestaglia, di fronte alla tv.
In molti casi la vegetazione è entrata dalle finestre senza più vetri, e da ogni possibile apertura. Come se stesse cercando qualcosa. Ma chi evidentemente cercava qualcosa (un oggetto prezioso dimenticato? Un mobile da caricare e portarsi a casa? Qualcosa di misterioso e imprevedibile che stupisse?) ero soltanto io, mentre la natura era lì semplicemente, e ciecamente, perché nessuno in tutti quegli anni se n’era più occupato. La luce spesso era bella, penetrando tra i rami, e avrei potuto sistemare una sdraio e un libro e passare lì un pomeriggio.
Al pianterreno della pensione Graziella ho trovato una porta che si apriva su di uno spazio buio, color pece, respingente e informe, dilatato, di cui non comprendevo la forma. In fondo allo spazio si vedeva una finestrina bianca di luce, e sotto la finestra delle striature contro lo spazio scuro, che sembravano muoversi come dei riflessi. Ho avuto un’intuizione, e ho preso un grosso pezzo d’intonaco da terra, praticamente un sasso, e l’ho lanciato verso la finestra. Il sasso si è inabissato, con un tonfo sordo e liquoroso, dentro quella superficie oscura che doveva essere acqua piovana – tonnellate di acqua piovana mista a fango, raccolta nel seminterrato fino a farne una piscina nera, fino a coprire la rampa di scale che stava appena sotto i miei piedi. Un altro passo e ci sarei sprofondato.
Quando quella sera in bicicletta ho visto il cartello “Fondazione Pro Verbo Villa Verde”, ho prima frenato, dato un’occhiata, poi ho deciso di scendere e scavalcare il cancello.
L’edificio era a tre piani, probabilmente risalente agli anni ’70, cinto da una vegetazione impazzita, tropicale. Era adiacente alla strada eppure perfettamente occulto, discreto. Come una realtà parallela. Quando mi sono avvicinato, tenendo un bastone lungo un metro stretto in mano, come facevo ogni volta per precauzione procurandomelo tra i cespugli e al piede delle piante, ho creduto di trovarmi dall’altra parte del mondo. A Panama, a Portorico. In qualche vecchia città cocktail lounge per turisti americani. Ma dopo una bomba. Ed era concreta e reale, questa sensazione di equatore senza più umani.
Sono entrato adagio, come nei film quando la vegetazione è troppo fitta e va tagliata a colpi di machete. In quella pensione è accaduto l’episodio che dà il titolo a questo racconto tratto da un fatto realmente accaduto. Ho compreso fino in fondo qualcosa che riguarda la scrittura e il giornalismo. Qualcosa che già sapevo ma non fino in fondo. Che esiste un istante di fuoco, come nella sensualità e in ogni momento che ha a che fare col vero, in cui le cose devono essere afferrate. Trascinate flagranti su un supporto. Un registratore digitale, un pezzo di carta. Fotografate. Ora o mai più.
«Molto spesso annotiamo una frase troppo presto, poi una troppo tardi; dobbiamo scrivere la frase nel momento giusto, altrimenti va perduta»
Thomas Bernhard
Dentro la pensione, nella sala dove certamente un tempo stavano il bancone con il portiere e le chiavi delle stanze alle sue spalle, era tutto devastato, gonfio d’umidità, putrescente. Ho avuto paura dei topi. In una stanza c’erano delle panche di legno da chiesa, come una specie di cappella improvvisata, un altarino posticcio e dei piccoli vangeli a terra, verdi di muffa e sommersi dai calcinacci. C’era un montacarichi ingombro di piatti sporchi e delle vecchie cartoline di Marina di Massa e Forte dei Marmi.
Ho preso per le scale e ho deciso di salire al primo piano. Ad ogni passo il rumore di qualcosa che si frantumava sotto i miei piedi. Sul pianerottolo, poi, fatta una rampa di scale, prima di voltarmi e raggiungere il primo piano, ho trovato un vecchio telefono pubblico, con una calotta di plastica che lo proteggeva. Mi sono fermato e ho fatto una foto. L’ultima che ho scattato là dentro.
Giunto al primo piano c’era un corridoio che si allungava da entrambi i lati, sulla mia destra e sulla mia sinistra. Il silenzio era totale, eccetto il canto di un uccello e il rumore delle zampe che saltavano da un ramo all’altro facendoli vibrare insieme alle foglie. A destra c’erano le vecchie stanze della pensione, una dopo l’altra, in sequenza. La 10, la 11, la 12, la 13. Completamente sfondate, le tapparelle a pezzi. Le falene che frullavano le ali brune contro il soffitto macchiato dagli aloni verdi. Ho proseguito verso sinistra, spinto dal desiderio non conscio di trovare qualcosa. Ma che cosa? Non semplicemente qualcosa di prezioso da caricarmi e portarmi via. In realtà sembrava che tra quelle mura non si fosse salvato niente e che nessuno ci entrasse da anni. E che cos’era allora la forza che mi ha spingeva ad inoltrarmi, in solitaria, dentro quel luogo defunto che aveva già dato tutto quello che aveva da dare?
Poi ho avvertito un rumore e come un’onda di calore animale. Il fruscio di qualcosa che spostandosi aveva mosso dei detriti, grumi di polvere, dei vetri. Dentro una stanza, una delle vecchie camere della pensione, c’era un uomo, sdraiato su un materasso. Era lui che aveva fatto quel rumore. Mi aveva sentito montare cautamente le scale, poi camminare piano piano lungo il corridoio. Si era voltato per vedere chi fossi, restando supino. Senza scomporsi. Come se fossi stato suo figlio, un parente. O la moglie che gli fosse passata di fronte per sedersi sul divano e guardare la tv. Con calma mi ha detto: «vieni, vieni tranquillo». E ha fatto un gesto della mano e del braccio, restando sdraiato dov’era. Io gli ho detto scusami. Due volte. «Scusami, scusami». Poi sono scappato giù per le scale, con una strana tensione che aumentava e diminuiva sulla presa intorno al bastone. Gli ho gridato «scusami, scusami», mentre ero già al piano terra e lui da sopra mi urlava «vieni, vieni tranquillo». Tra le pareti fradicie della pensione, le voci rimbombavano forte, assurdamente, come quelle di un russo e di un tedesco, faccia a faccia tra le macerie in un film di guerra.
Ero in strada, col cuore che pompava a mille. Cercavo di togliere la catena dalla bicicletta, e quell’uomo, affacciato a un balconcino cadente, continuava da lontano ad urlarmi: «vieni, vieni tranquillo», ma con un tono che si era fatto minaccioso e spaventato al tempo stesso.
Quasi buio. Mi ero già distanziato di un paio di chilometri. Pensai che avrei dovuto fermarmi in quel posto che, curiosamente, un tempo si chiamava Fondazione pro verbo, e per via di quel nome sembrava un invito a fare qualcosa con la parola. Non scappare ma fermarmi. L’azione di entrare in una casa abbandonata chiedeva di trovare un senso. E il senso si era presentato. «Vieni, vieni tranquillo». Avrei dovuto cercare un pezzo di carta, infatti, qualcosa per scrivere sul pezzo di carta, sedermi e chiedere a quell’uomo di raccontarmi la storia della sua vita.