Il locale che nacque da una telefonata
Qualche anno fa trovai in una biblioteca di Milano un libricino intitolato Macondo. L’aveva scritto Mauro Rostagno insieme al giornalista Claudio Castellacci. Il libro raccontava la storia di un locale aperto a Milano, in via Castelfidardo, alla fine del 1977. Si chiamava appunto Macondo. Il locale era stato aperto da Rostagno e da un gruppo di amici. Dopo aver letto il libro incontrai in un bar di piazza XXV Aprile Caterina, una frequentatrice di Macondo trentacinque anni dopo. Davanti a una birra mi disse che Rostagno era una specie di angelo, che apparteneva ad un’altra categoria di esseri umani. Poi mi pregò di non chiederle aneddoti, perché non ne aveva. Era molto commossa e infatti ci tenne a dirmi che aveva conservato una memoria emozionale fortissima di quel periodo. Mi disse che a Macondo si stava come in una bambagia, in una trama di rapporti molto speciali. Che tutti loro avevano un modo diverso di filtrare la realtà. E alluse al fatto che fuori, in quel periodo, si sparava. Macondo, che era una specie di anticipazione dei centri sociali, era frequentato dai proletari di Quarto Oggiaro, così come da Gilles Deleuze e Vanessa Redgrave. Si ascoltava Miles Davis, musica andina e “77”, il disco dei Talking Heads. Dopo pochi mesi di vita venne chiuso, in seguito ad una buffissima vicenda di droga. Qualcuno sostenne che dentro a Macondo fossero stati distribuiti 450.000 biglietti del tram – cifre del Corriere – da utilizzare come buoni per l’ashish. Il processo si concluse nel marzo ’78, qualche giorno prima del rapimento Moro e della strage di via Fani. Alcuni dei Macondini vennero condannati a tre mesi di reclusione e a una multa di 300mila lire per “favoreggiamento nell’uso di sostanze stupefacenti”, ma vennero riconosciute tuttavia le attenuanti generiche e quelle di aver agito “per motivi di particolare valore morale e sociale”. Durante l’istruttoria, infatti, venne appurato il lavoro fatto a Macondo contro lo spaccio di eroina e per il recupero dei tossicodipendenti. Qualche anno dopo Rostagno fonderà in Sicilia una comunità di recupero.
Nelle prime pagine del libro, Rostagno raccontò com’era nata l’idea del locale. Un pomeriggio aveva sentito squillare il telefono nel suo appartamento di Milano. Quindi si era alzato dalla poltrona e aveva alzato la cornetta.
“Pronto”.
“Si, sono Guia. C’è Claudia?”.
“No, qui non abita nessuna Claudia”.
“Allora ho sbagliato numero”.
Ma Rostagno, carpe diem, replicò: “Non si sbaglia mai numero”.
“E chi l’ha detto?”, sbottò Guia.
“Lacan, lo psicanalista…”.
Quasi quarant’anni dopo, noi che siamo molto maliziosi, e che viviamo immersi nella cultura del marketing, potremmo pensare: questo è uno storytelling, un modo per venderci un libro, una storia, un’esperienza e una prospettiva politico-culturale chiamata Macondo. Ma più probabilmente l’aneddoto fu solo un modo di Mauro per affatturarci, per conquistarci all’atmosfera del tempo. Alla quale oggi noi siamo così terribilmente estranei. Ma è altrettanto probabile, o senz’altro verosimile, che Rostagno abbia realmente voluto afferrare l’occasione di quella telefonata per accendere il meccanismo delle relazioni sociali. O sentimentali. È probabile, o verosimile, che le cose siano andate proprio così come le riportò in quel libro. Epilogo: Mauro e Guia, di lì a poco, dopo quella comica telefonata e dopo essersi visti un giorno in Parco Sempione, si conobbero, fecero amicizia, e insieme ad altri amici aprirono quel locale, il Macondo, a cui Alberto Camerini dedicò una canzone. Anche questa, come tante altre, è la vera storia degli anni ’70. Senz’altro un pezzo della storia di Mauro, che poi diventò un caduto della lotta alla mafia.