Perché non mi è piaciuto quel Macchianera Award
Un paio di giorni fa ho letto i verdetti del Macchianera Blog Awards 2013. Nessuna grande sorpresa. L’attenzione è caduta soprattutto sul vincitore della categoria “Miglior articolo dell’anno”. Si tratta di un pezzo che avevo già visto condiviso a valanga pochi giorni prima delle politiche del 23-24 febbraio scorso, quando l’M5S prese uno storico e pazzesco 25,55% alla Camera e 23,79% al Senato. L’autore dell’articolo è il blogger Quit the doner. Il titolo è “5 buone ragioni per non votare Beppe Grillo”. Ad oggi è stato condiviso oltre 143 mila volte. Numeri davvero notevoli. Sono qui e ne sto scrivendo per dichiarare quanto, a mio avviso, ma credo con qualche apprezzabile ragione, sia davvero sconfortante che possa essere stato così tanto votato e alla fine insignito del titolo, molto impegnativo, di “miglior articolo dell’anno”.
“5 buone ragioni per non votare Beppe Grillo” è un testo lunghissimo, di quasi 28 mila battute, che si apre illustrato dalla ennesima variazione del meme «Keep calm and…», in questo caso addizionato da un simbolo dell’M5S ritoccato. Al posto delle cinque stelle, infatti, troviamo cinque piccole svastiche gialle. Un dettaglio che già all’epoca, il 20 febbraio scorso, quando il pezzo era stato pubblicato, mi aveva molto colpito. Sia per la raffigurazione brutale, demonizzante, ed evidentemente più che iperbolica, che viene data dell’M5S, sia per l’uso disinvolto di un simbolo, la svastica, che richiederebbe maggiore cautela, a meno di non deludere la parola dei testimoni (a partire da Primo Levi) che appunto ci chiesero di non fare di quella storia (inimmaginabile) una barzelletta, di non farne qualcosa da maneggiare come meglio ci conviene, per sortirne un effetto di basso spettacolo o per cavarne un puntello retorico.
Non mi accaloro tanto per i refusi mai corretti sparsi lungo il testo (il nome della testata Micromega, scritto con ‘m’ minuscola; Italia, con ‘i’ minuscola; «precendenti»; «imaginario collettivo»; «smarthphone»; «spolier alert»); tantomeno per i periodi di quattro, cinque righe, senza un’interpunzione a dare respiro; non me la prendo per l’ostentazione («scorreggia»; «stronzi»; «mignotte»; «mannaggia la puttana») di ciò che a letto chiamiamo dirty talking, ma nella scrittura è un fatto che, se non padroneggiato, diventa sospetta emulazione di Hunter Thompson, Lester Bangs e del Rolling Stone vecchia scuola; un po’ me la prendo per quella certa prosa blogger, dove l’italiano diventa inodore, senz’anima e gusto, come se fosse un programmino scaricato, una lingua basic morfologicamente sul punto di spaccarsi e lasciare emergere l’idioma che preme sotto, cioè l’inglese originale o in traduzione che leggiamo ogni giorno spruzzato ovunque sulla rete; alla fine, mi accaloro invece per questo semplificato e generico compendio, scritto quasi senza virgole, di storia del pensiero politico:
«Storicamente chiamiamo “Sinistra” quel variegato numero di partiti che all’interno di un sistema democratico come il nostro si propongono come i rappresentanti della maggioranza meno abbiente della popolazione. A questo si possono spesso aggiungere altri valori collaterali che nel corso della storia ( ma non sempre ) si sono associati a queste parti politiche come ad esempio la lotta per i diritti civili, il pacifismo, l’internazionalismo. Chiamiamo invece storicamente “Destra” quell’universo di partiti che si propongono di fare gli interessi della parte più ricca della popolazione unendo spesso ( ma anche qui non sempre) a questo anche posizioni a favore della patria, della concezione religiosa della famiglia eccetera».
Duecento anni di storia – di memorabili o inutili pagine, di cadaveri, scissioni, bandiere gloriose, e polvere, omicidi, lacerazioni e dispute senza fine – che in questo articolo sembrano giungere a noi sminuzzati, attraverso il rumore bianco di una stanza con la tv accesa, e i continui squilli di Messenger e Skype in sottofondo. Ecco invece il compendio della dottrina politica di Grillo e dell’M5S:
«La storia del suo movimento la conosciamo bene, ha preso una buona idea (la democrazia partecipativa) l’ha scopata un paio di volte, le ha detto che l’amava, poi ha incominciato a picchiarla e a farla battere sulle strade della penisola per suo tornaconto».
E così via. Questo è il tono. Può essere divertente oppure no. Può senz’altro, nel suo linguaggio più o meno LOL, intuire e comunicarci qualcosa sulla natura dell’M5S; ma ne elude comunque moltissimi altri aspetti; può essere un’efficace sintesi di considerazioni lette sulla carta stampata, dove scrivono i politologi, e tradotte per un pubblico che, purtroppo, non compra più quotidiani. Può essere.
Di Quit the doner avevo già letto, anche con piacere, qualche servizio su Vice.com. Mai mi sarei messo qua a scrivere, e a cimentarmi nell’esercizio abbastanza tedioso e brutto della critica, se il pezzo antigrillino fosse stato uno dei tantissimi scritti ogni giorno, con propri pregi e difetti, e non addirittura ‘il miglior articolo dell’anno’. C’è, alla fine, un fatto che più di altri non mi piace, e che mi sembra l’aspetto più importante, la verità vera dell’articolo, che è la verità vera di questa epoca della rete. Quale? Il sarcasmo voluttuoso e piegato come un fregio barocco, il birignao LOL, l’ironia irrancidita e la frivolezza, che assieme compongono la stucchevole aria mozartiana che sembra ascoltarsi su certi nodi della rete. Per esempio sulla pagina Twitter di molti grandi columnist e, di retweet in retweet, nel relativo sottobosco.
«Il programma di Grillo sembra quello che scriverebbe una matricola di scienze politiche al 10° chiloom».
È uno degli altri incisi che, l’uno agganciato all’altro, assemblano le quasi 28 mila battute di un testo costruito come un montaggio di frasi spiritose, fulminanti, spettacolari, secondo una logica “140 caratteri”. Una musichetta di scherno, catchy e radiofonica, cultura alta e cultura bassa come prescrive il postmodern, che prevale sul contenuto, lo informa, deforma, s’installa nelle orecchie del lettore e che in questo caso fa di “5 buone ragioni per non votare Beppe Grillo” un pezzo in fondo, paradossalmente, troppo simile ad un post di Grillo, a un corsivo di Travaglio o al tweet di un follower di Selvaggia Lucarelli. Non può essere questo “il miglior articolo dell’anno”.