I Baustelle e il tetrò. Perché quella canzone è un capolavoro
L’impianto stereo è rotto. Avrei dovuto inscatolarlo e portarlo da un tecnico, ma non l’ho fatto. Così da molto tempo è rotto e da altrettanto tempo non compro un disco. Alla pigrizia si è sommato il disappunto, come dice Anna Oxa, per quanto accaduto in questi ultimi anni dentro e intorno alla musica pop. Disappunto per il citazionismo, i revival, i tic nostalgici e retrò. Avevo la sensazione che, come scrive Simon Reynolds in Retromania, il pop fosse ad un passo dall’esaurimento (ecologico) delle risorse. Che la maggior parte della musica confezionata nella nostra epoca si esaurisse nel prelievo e nel mix di campioni e tasselli del passato.
Di conseguenza ho cominciato a seguire le novità con uno scetticismo sempre più snob. Alle copie di oggi, trasformandomi in vero nostalgico, ho preferito gli originali degli anni ’60, ’70 e ’80. Dopo un po’ di tempo, invece, ho cominciato a cambiare atteggiamento. Ho cominciato a fare autocritica, a diventare sospettoso con me stesso e verso le mie chiusure, fino a quando, qualche giorno fa, ho ascoltato su YouTube l’undicesima traccia di Fantasma, l’ultimo album dei Baustelle. S’intitola Il futuro e resta, per quanto mi riguarda e per il momento, l’unico pezzo ascoltato del disco. Perché questa canzone mi è sembrata, ascolto dopo ascolto, un capolavoro capace di tormentarti per giorni, mentre guardi un film al cinema, mentre parla un collega, mentre fai colazione in un bar o cammini lungo il vagone di un treno per Firenze? In questo pezzo i Baustelle hanno il coraggio di sprofondare al nucleo, d’infoibarsi completamente nella nostalgia, senza freni inibitori, e in quella ossessione per il passato dalla quale, come ascoltatore, stavo cercando di divorziare. Il prisma di luce del tempo passato riesce a infiltrarsi dentro quasi ogni verso: «Perché tutto quel che hai primao poi lo perderai»; «il passato adesso è piccolo, ma soricordarmelo». La nozione di nostalgia viene traguardata e amplificata nelle orchestrazioni. Si muta in übernostalgia, cioè un sentimento sovraccarico, potente e cimiteriale. Qualcosa al tempo stesso di tetro e retrò, che potremmo chiamare, con un gioco di parole: tetrò.
Non ho idea di quanto possa emozionare il tetrò, mi ha detto un’amica, «se lo ascolti al nono piano della Warner Music, guardando la foschia di Milano diventare sempre più nera». La nostalgia, da tratto innocuo e comune della cultura contemporanea, che attraversa indistintamente il cinema di Wes Anderson, le collezioni H&M e I migliori anni di Carlo Conti, diventa qui nobiltà d’animo, chiodo fisso, sentimento oceanico. Anche per questo quella canzone è un’opera d’arte: per aver restituito circonferenza e romanticismo a un sentimento banalizzato e afflosciato nelle categorie del vintage, del retrò, del “come-si-stava-meglio”.
Tra i commenti al video, su YouTube, viene rinfacciato al cantante, Francesco Bianconi, il paragone col mostro sacro Fabrizio De Andrè. È per via del timbro di voce sempre più simile e di quel modo solenne di lasciare aria e spazio tra le sillabe. Ma è un giudizio miope e ingeneroso. Bianconi in realtà, almeno in questo pezzo, mette in atto, posseduto dalla übernostalgia, un esorcismo e, letteralmente, riesuma il corpo e la voce di De Andrè. Sembra indossare la sua giacca, le sue scarpe, tirare dalla stessa sigaretta, come Anthony Perkins in Psycho con la gonna della madre morta. Francesco De Andrè e Fabrizio Bianconi. Allo stesso modo, da un passato remoto si rianimano l’armonicista, il naccherista e l’orchestra di Ennio Morricone. Alzati e cammina. È una canzone su cui si potrebbe divagare all’infinito, così bella, tetrò e abissale da dare la nausea e che, magicamente, s’intitola Il futuro.