Salvare i maestri
Questa cosa dell’uccidere i maestri non mi ha mai convinta molto. Eppure da ragazza andavo in giro con gli anfibi estate e inverno, jeans strappati ed eccessi prèt à porter. Il punto è che se uno riesce ad individuare un maestro che valga il titolo che porta, allora ci deve andare piano con l’uccidere. Certo, di questi tempi è difficile trovare maestri degni, ma non impossibile. Ad esempio giovedì ne ho incontrato uno, al teatro sociale di Alba. Werner Herzog è venuto in provincia di Cuneo per raccontare la sua arte. Non ci potevo credere, era da mesi che aspettavo il momento, mi sentivo una ragazzina al primo appuntamento, una donna con una missione, ma anche inferiore, molto inferiore, a lui. Ecco perché ho sofferto moltissimo quando mi sono resa conto che l’organizzazione a dir poco italiana, aveva deciso di uccidere il maestro, sostituendo il rispetto per la sua opera con abbondante auto-celebrazione, cosa che è poi andata inavvertitamente a infierire sul figlio, sulla creatura, ovvero, sul film. All’inizio volevo approfittare di questo spazio per scrivere di quanto sia facile uccidere personaggi appartenenti alla categoria in via d’estinzione dei Grandi, poi però ho pensato che anche questo fosse un modo, se non di ucciderli, di non celebrarli a dovere. Per cui ho deciso di ignorare tutto ciò che ha minacciato la serata, concentrandomi invece su quello che il grande maestro mi ha lasciato. Oltre a un senso di inadeguatezza, ma quello lo tengo per me.
Fase uno dell’incontro: quello con gli studenti. Ci si prepara a guardare Aguirre . Werner (è da giovedì che lo chiamo così, c’era qualcosa nelle sue parole che mi ha fatto pensare che avrebbe approvato) racconta delle difficoltà avute nel gestire la scena di apertura del film, con tutti i lama, i maiali e le quattrocento comparse inerpicate sulle scoscese pendici di Machu Pichu in un umido giorno di pioggia. Racconta delle scelte drammatiche fatte per rendere vivo il paesaggio: “se avessi ascoltato Kinski , il film sarebbe iniziato con un’immagine da cartolina in cui sfilava un esercito capitanato da lui. Ma lui non era ancora il protagonista, lo sarebbe diventato solo dopo, così ho stretto l’inquadratura e ho tagliato fuori lui, e l’immagine da cartolina”. Deciso, il regista deve comandare, prendersi responsabilità, convincere tutti che ciò che lui decide non solo è da fare, ma è anche giusto.
Poi arriva la classica domanda di chi segretamente spera di ricevere per risposta «perché non vieni nel mio camerino e ne parliamo, magari poi facciamo un film insieme, così ti mostro direttamente come si fa», ovvero «cosa suggerirebbe a chi vuole fare il regista?». Ma se Herzog è quel che è, non ci si può aspettare altra risposta se non “per essere un regista bisogna fare dei film”. Certo aiuta anche molto la lettura compulsiva e selvaggia di qualunque cosa, il saper scassinare i lucchetti, rubare automobili e telecamere, l’abituarsi al pericolo fisico e, soprattutto, il camminare. Per fare il cinema che fa Herzog, bisogna assolutamente camminare, questo mi piace molto. Mi piace perché è una risposta precisa, diretta e, allo stesso tempo, una risposta che non è del tutto fuori tema come può sembrare a una prima occhiata. «Ad un certo punto il viaggio e il paesaggio diventano la stessa cosa», dice, cosa che coincide con il suo modo di guardare. Con quali altre parole un regista potrebbe provare a spiegare come guarda il mondo: certo, lo fa prestandoci i suoi occhi nei film, ma lì entra in gioco tutto il mondo della macchia cinema. Invece no, il modo che Erzog ha di guardare il mondo è legato al suo muoversi a piedi, lentamente, attraversare il paesaggio, prendendosi tutto il tempo necessario e scoprirlo pezzo per pezzo.
Poi arriverebbe la parte polemica, la parte in cui il regista che è riuscito a trasportare una barca al di là di una montagna con un sistema di ingranaggi di legno presenta la proiezione del suo film, e quella non parte. Problemi tecnici imbarazzanti su cui non vale la pena soffermarsi.
Fase due dell’incontro: ora gli studenti sono scomparsi o si sono mimetizzati con il pubblico adulto, vestito a festa per l’occasione: la consegna del tartufo d’oro a Werner Herzog. Bene. La missione pare essere quella di far parlare Herzog delle Langhe, del resto è qui per parlare di paesaggio. Domande, interventi, tutto va in quella direzione, ma grazie al dio cinema Herzog è davvero un maestro, per cui riesce a ignorare gran parte del fumo venduto per raccontarci storie e aneddoti tratti dalla sua vita, fatta di passi e sguardi. Come quando Werner, a Creta, dopo aver scollinato e marciato in un bosco, è sbucato davanti a un prato pieno di fiori impazziti, tutti presi a vorticare su se stessi. Incredulo Werner continua a guardare, da lontano, in un piano sequenza lento e sfuocato. Avvicinandosi un poco alla volta mette a fuoco quell’immagine e scopre di essere dinnanzi a una quantità enorme di vecchi mulini a vento usati per l’irrigazione. Il giovane Herzog ci mette del tempo a realizzare la vera natura di quella immagine apparentemente assurda, a convincersi di non aver perso il senno nel lungo girovagare. Farsi delle domande su ciò che l’occhio vede, su come lo vede, questo è il cinema.
E presto la sala viene sottoposta in qualche modo a un’esperienza simile, ovvero alla visione di alcune scene tratte da “Cuore di vetro“, film in cui tutti gli attori hanno recitato sotto ipnosi. Anche noi ora fissiamo elementi naturali che cambiano forma, diventano altro, forse ci ipnotizzano e forse ci fanno dubitare del nostro buon senso, così come deve essere successo a Werner quella volta a Creta. O ancora, immagino il ragazzo che da dietro un albero si sforza di riconoscere i contorni del mondo, così come fa il protagonista ne “L’enigma di Kaspar Hauser”, quando vede per la prima volta il mondo, e noi con lui, attraverso uno stratagemma di ottiche (un fish eye montato su un grandangolo).
Tutti pendiamo dalle sue labbra. Forse perché in qualunque cosa racconti si può trovare qualcos’altro. Le sue parole misurate hanno strati di significati che mancano nel dibattito pubblico. Siamo andati oltre, nonostante le difficoltà di partenza. E questo mentre Werner racconta, aprendo la bottiglia d’acqua con una mano, tenendola stretta con i piedi e svitando il tappo con l’altra mano, libera dal microfono. Siamo quasi alla fine e ciò che ha detto della Langa è che sicuramente ci tornerà, a piedi, solo allora vedrà veramente il luogo in cui si trova. Nell’attesa di quel momento ci porta ancora più indietro nella sua infanzia, a quando in qualche modo aveva già ucciso il padre e si apprestava alla battaglia finale con il nonno, per capire chi fosse degno di diventare suo maestro. Pare, infatti che lo stretto legame con la terra (chiamiamolo paesaggio, ma forse è meglio natura o mondo, o comunque una terra che viene intesa indubbiamente selvaggia e transnazionale, ultratemporale) gli venga proprio dal nonno, uomo che, precisa subito, ha ammirato molto più del padre. Un brillante archeologo che, ci dice Werner, ascoltava la terra e sapeva andare a recuperare templi, ruderi, laddove erano scomparsi secoli prima. Un brillante archeologo impazzito, ovvero un vecchio matto al tempo in cui era una presenza nella vita del piccolo Werner. Lui lo ammirava, ma non conosceva altro modo di dimostrargli cotanta stima se non rivolgendosi a lui con ingiurie e male parole. Herr Kannibale (Mister Cannibale) ad esempio. La nonna, però, non capiva questo amore conflittuale e inseguiva i fratelli Herzog con un grande cucchiaio di legno, da cui loro scappavano arrampicandosi sugli alberi. Ora mi confondo e non so più dire se siano parole di Werner o conseguenze dell’ipnosi di “Cuore di Vetro”, ma immagino chiara questa scena ripetersi giorno dopo giorno. Esterno, giorno: una tiepida estate bavarese. Werner si mette in salvo sgattaiolando su un albero, da cui poi si apposta per scrutare lo svilupparsi della follia del nonno. Il fratello lo segue con fiducia, giorno dopo giorno. Fino a quando, all’improvviso, Werner non sale più sull’albero, nonostante il fratello lo inciti a scappare. Werner è immobile, a piedi nudi nel prato umido. Ha deciso: non scappa più dalla nonna, si prende le botte che gli spettano. Salva il suo maestro.
– Giulia Grimaldi –