Chi trova un amico trova un tesoro
In gioventù ho preso la poco accorta decisione di iscrivermi alla facoltà di Filosofia. Non contenta, dopo appena quattro mesi di lezioni, ho fatto domanda per il tirocinio formativo in una scuola e loro, ancora più incoscienti di me, mi hanno accettata come tirocinante. Come forse qualcuno già sa, il tirocinio alla triennale non prevede un’interazione diretta con gli studenti, ma l’osservazione del poetico passaggio della conoscenza da maestro a discepolo. Ovviamente tra la teoria burocratica e la pratica teorica c’è un abisso fatto di programmi ministeriali, assemblee sindacali, scioperi, occupazioni ed esami di maturità incombenti, così da osservatrice muta mi sono trasformata in un elemento socialmente utile. Per tre mesi mi è stato concesso l’onore di spiegare autori di cui sapevo ben poco anche io, di suggerire voti e domande durante le interrogazioni – con conseguente sensazione di sadico piacere che mi procura ancora oggi un brividino lungo la schiena – e di correggere le simulazioni di terza prova. E proprio mentre svolgevo il mio compito di lettrice con la matitina rossa ben impugnata, incontrai per la prima volta l’orrido sotto forma di un lungo ghirigoro d’inchiostro.
Lamicizia.
Non ricordo la domanda posta dalla professoressa, non saprei dire neppure a che autore si riferisse. Ma sono certa di aver fissato quella parola per cinque minuti, cercando di formulare un commento capace di comunicare la gravità dell’errore. La nostra specie è destinata a estinguersi: ecco l’unica cosa che riuscivo a pensare. «Non essere troppo esigente sulla qualità degli scritti: l’importante è il contenuto» mi aveva raccomandato la professoressa, così decisi di andare avanti, magari si trattava solo di una svista. E invece su dieci righe otto volte si ripeteva la parola amicizia, otto volte fusa con l’articolo. Da allora quando qualcuno dice amico la prima cosa che mi viene in mente è lamicizia. La seconda è Judd Apatow.
Se c’è qualcuno che ha capito qualcosa su quel mondo di “scioglievolezza” che sono i sentimenti umani, quello è proprio Apatow. Il regista non si lascia conquistare dalla storiella hollywoodiana fatta di amori perfetti, di lieti fini improbabili e di gente che mangia pancake tutti i giorni senza mettere su un grammo. Apatow non crede nella classica commedia romantica, ma neppure cede al comico fine a se stesso. Gli interessa produrre e raccontare quelle storie al limite del verosimile che spesso si ripetono mille volte davanti a una birra con gli amici e di cui in fondo nessuno si stanca. Esattamente il contrario di What happens in Vegas stays in Vegas: qui l’intimità si crea soprattutto sulla base della narrazione continua dell’esperienza condivisa, che serve a ravvivare il fuoco della relazione. Ogni film è un lungo e imbarazzante discorso da best man alticcio al matrimonio del suo migliore amico. Ti ricordi quella volta che hai messo incinta una incontrata in un bar? La sapete che lo sposo è rimasto vergine fino ai quaranta?
Apatow crede così tanto nell’amicizia da lavorare spesso con lo stesso gruppo di attori. Il nucleo originale si fonda nel 1999 con la divertente quanto sfortunata serie televisiva Freaks and Geeks. Ambientata nei peggio vestiti anni Ottanta, lo show racconta le vicende di un gruppo di outcast molto diversi, il gruppo dei secchioni e quello degli strambi, e in particolare di Lindsay Weir e del suo passaggio da un gruppo all’altro. La serie vede l’esordio di alcuni degli attori feticcio di Apatow: James Franco, Seth Rogen, Martin Starr e Jason Segel. Negli anni al gruppo si sono uniti anche Paul Rudd, Will Ferrell, Jonah Hill e, tra le donne, la moglie Leslie Mann e Kristen Wiig. L’incontro tra questi attori sul set è stato esplosivo, non solo per i successivi casting di Apatow, ma anche per i progetti che hanno sviluppato in seguito in autonomia, basti pensare a Facciamola finita, film apocalittico diretto da Seth Rogen in casa di James Franco, con la partecipazione straordinaria di buona parte del gruppo di attori sopracitati.
Altro esempio di ottima collaborazione tra attori della cricca di Apatow è I love you man, con protagonisti Jason Segel e Paul Rudd che reinventano la bromance, ovvero la commedia romantica tra due amici, e rendono omaggio ai classici con Jack Lemmon e Walter Matthau, a cominciare da La strana coppia. Che il lieto fine dell’accoppiata Segel/Rudd sia simile a quella dell’epic bromance story? Certo è che Apatow aveva già intuito la loro potenzialità di coppia comica, tanto da averli scelti per Non mi scaricare, commedia scritta dallo stesso Segel.
Nei film finora citati il fatal flow, ovvero la ferita mortale da risanare dei protagonisti, è sempre l’immaturità. Il motore delle loro azioni è la ricerca di un proprio ruolo nel mondo, che, invece di diventare più chiaro, durante la crescita sembra essere sempre più confuso. Dagli adolescenti di Freaks and Geeks ai trentenni di Molto incinta, dai giovani universitari di Undeclared fino ai quarantenni di Questi sono i 40, il problema è sempre quello della crescita. E le storie d’amore non aiutano, semmai rendono la strada ancora più dura. Sono solo gli amici a recuperarti e darti una bella scrollata di capo per farti tornare in carreggiata. O le amiche. Nel 2011 Apatow produce il pluripremiato Le amiche della sposa, che rivoluziona il genere frenemies. Per la prima volta l’oggetto che scatena la rivalità tra donne non è la carriera o un uomo, ma l’affetto di un’amica. Eva contro Eva per Eva quindi. Il film, scritto non a caso dalle due amiche Kristen Wiig e Annie Mumolo, disintegra in poche scene il mito delle cheerleader che si prendono a cuscinate sul letto), a favore di una più preziosa condivisione di imbarazzo, che divide i dolori – di stomaco – e raddoppia le gioie.
L’amica è dunque una coscienza incosciente. Una figura che si delinea nei suoi spigolosi contorni in Girls, la risposta di Apatow Production al mantra di Sex and the City: «Maybe we can be each other’s soul mates. And then we can let men be just these great, nice guys to have fun with». La protagonista della serie, impersonata dalla creatrice, sceneggiatrice e prima giovane donna ad aver vinto qualunquepremiovivieneinmente Lena Dunham, è una twentysomething egocentrica circondata da amiche altrettanto prese da se stesse. L’amicizia qui è qualcosa di crudo e delicato, che può implicare il pulirsi il naso nella vasca in cui si è immerse insieme. Qualcosa di tanto reale da rendere narrativamente coerente il giudicare e amare una persona allo stesso tempo. Da nessuna altra parte è stata mostrata quell’unione di ipocrisia e affetto che rende un amico indispensabile, la peggiore ancora di sabotaggio nei momenti bui, ma comunque la migliore possibile.
Ed ecco svelata la verità: tutto ciò che vogliamo, in fin dei conti, è essere amati. Ma nella vita di tutti i giorni l’amore non basta, a volte è perfino la causa della nostra infelicità. Ascolta Judd Apatow, trovati un amico. Preferibilmente che conosca l’ortografia.
– Chiara Marletta –