Il potere di un titolo
Domenica pomeriggio sono andato alla Feltrinelli di Piazza San Carlo. Tutto quello che volevo fare era vagare per la libreria, dare un’occhiata alle ultime uscite, prendere un libro in mano, leggere la quarta di copertina e lasciarmi sedurre dall’incipit. Insomma, avete capito, mi servivano nuovi libri e sono rimasto nascosto nel megastore per più di un’ora.
Due cose hanno attirato la mia attenzione. La prima: la gente. La libreria era colma di uomini e donne. In alcuni settori dovevo anche mettermi in fila e aspettare il mio turno. I commessi erano sempre occupati. Gli scaffali “Novità”, “Imperdibili”, “Saggistica” e “Gialli” attiravano la maggior parte dei presenti. Nessuno si filava i libri d’avventura, quelli per ragazzi (anche se i numeri dicono che sia il settore più proficuo) e i fumetti (ad eccezione del nuovo lavoro di Zerocalcare).
In classifica il libro più venduto era quello di Ken Follet, al secondo posto Daria Bignardi e al terzo, mi sembra, Il Capitale di Thomas Piketty o Colpa delle stelle di John Green. Commenti a proposito di questa classifica? Nessuno.
La seconda cosa che mi ha colpito (che è il motivo di questo post) sono stati i titoli sulle copertine dei libri di narrativa italiana degli ultimi 10 anni. Una coerenza inquietante. Sembra che tutti gli editori abbiano perso fantasia e inventiva, scegliendo, per misere operazioni di marketing, titoli che reputo (e qui potremmo aprire anche una discussione lunga giorni ma il mio parere non cambia) orrendi, al limite della decenza e della sopportazione.
Un calcio in culo all’intelligenza del lettore e dell’autore.
Ecco alcuni esempi (non è uno scherzo).
L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore, Michela Marzano (vincitrice Premio Bancarella 2014)
Non dirmi che hai paura, Giuseppe Catozzella
Mi ami e non lo sai, Tiziana Merani
L’amore che ti meriti, Daria Bignardi
Cuore primitivo, Andrea De Carlo
Voglio vivere una volta sola, Francesco Carofiglio
Niente è come te, Sara Rattaro
Il lato oscuro del cuore, Corrado Augias
Ciò che è inferno non è, Alessandro D’Avenia
Ne avete abbastanza? Io no, eccone altri 3:
Quella vita che ci manca, Valentina D’Urbano
Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti?, Antonio Distefano
L’amore quando c’era, Chiara Gamberale
È chiaro che ci sono anche le eccezioni. L’ultimo lavoro di Sandro Veronesi, per esempio ha un titolo molto intrigante (Terre rare), così come le opere di Giancarlo Carofiglio (Il passato è una terra straniera lo considero uno dei titoli più azzeccati degli ultimi 20 anni) e Alessandro Perissinotto (Le colpe dei padri o Semina il vento). Erano suggestivi i titoli di Italo Calvino (Le città invisibili il mio preferito), alcuni di Niccolò Ammaniti (Branchie, Io non ho paura prima che si abusasse con l’uso dell’Io) o di Alessandro Baricco (Castelli di rabbia, Novecento, City).
Ora, nessuno (tantomeno io) ha l’autorità di tracciare la linea di confine tra un titolo bello e brutto. D’altronde il titolo no–n deve essere né bello, né brutto ma deve “spingere” il libro nelle mani del lettore. Anche perché, siamo alle solite, chi può stabilire cosa sia il bello o il brutto? Quali dovrebbero essere i parametri oggettivi su cui basare tale decisione?
Però, non so voi, ma io sono nauseato da questa tendenza degli editori che dovrebbero rappresentare gli scrittori del mio paese. Perché sono sicuro che i titoli prima menzionati non sono all’altezza delle storie raccontate da quegli scrittori italiani.
I titoli menzionati sono – come direbbe Fantozzi «Una cagata pazzesca».
– Stai dando i numeri? – dice il mio amico William – L’hai detto tu stesso che non si possono catalogare i titoli in belli o brutti.
– Vero, William – dico io – ma i titoli che ho citato, rileggili se vuoi, sono di una banalità e di una superficialità mostruosa. È nostro dovere – continuo, accendendo una Camel – dire qualcosa a proposito, urlare il nostro sdegno.
– Ti sei montato la testa? – dice William addentando una mela – alla gente quei titoli potrebbero piacere.
Temo che William possa avere ragione. Perché il titolo è solo un operazione di marketing. Se i più importanti editori italiani (più importanti: editori che portano gli autori in libreria, occupano le vetrine e gli scaffali) insistono sulla linea sentimentale, amorevole, problemi di cuore, eccetera eccetera (insomma avete capito) vuol dire che alla fine quella linea funziona. Però c’è un limite a tutto. E dovremmo essere proprio noi lettori a ribellarci. Non so come la pensiate, ma a me, titoli del genere, ripeto, mi sembrano una presa in giro e una mancanza di rispetto nei confronti della mia intelligenza. Domandate agli autori se sono soddisfatti dei loro titoli. Sarete sorpresi dalle risposte.
Basta. Finiamola con questa tendenza. Cari editori, poi ci lamentiamo che i giovani non leggono, che gli scrittori italiani sono snobbati, che la letteratura è in crisi. Non conosco come stanno realmente cose, ma di direttori editoriali o editor che fanno scrivere sulla copertina delle loro “creature” titoli come Mi ami e non lo sai o Non dirmi che hai paura, io non so cosa pensare.
– È la solita trita e ritrita questione di marketing – dice William – perché te la prendi?
– Marketing: eccola una pessima scusa. Perché i grossi editori, se vogliono, possono ingegnarsi, perdere cinque minuti in più del loro prezioso tempo e trovare un titolo che dia giustizia e autenticità al libro senza comprometterne le vendite. Un libro si deve vendere perché vale, non perché dal titolo il lettore, sospettando che abbia gli ingredienti di una storia letta tempo prima (grazie a parole come “amore”, “paura”, “vita”, etc…), si sente rassicurato e procede all’acquisto.
– Temo di non aver capito.
– Te lo rispiego.
Il concetto che vorrei far passare è che gli editori hanno stancato con questa omologazione. Con questa pigrizia. Dovrebbero darsi una svegliata e riavvicinare la gente ai libri sfruttando i contenuti di quei libri e le idee originali di quegli scrittori. Vorrei che gli editori fossero più audaci e creativi. E che si dimostrino all’altezza delle opere che pubblicano.
Scrivere un libro, come direbbe John Barth, è avere a che fare con l’algebra e con il fuoco. Programmazione e creatività. Ferro e materiale incorporeo. Falegnami di bottega che manipolano idee e visioni. È una faccenda complicata da gestire. Ci vuole una certa sensibilità e precisione. Spesso costa fatica, tempo, rinunce. Il dovere di un editore dovrebbe essere: rispettare e mettere in evidenza il lavoro del suo autore. Dargli spazio rendendolo autentico e originale. Non omologarlo (non sottovalutate l’importanza di un titolo, è il biglietto da visita del libro) per questioni commerciali. Va bene il guadagno, in fondo è un lavoro come un altro, ma non vorrei che si perdesse di vista la ragion d’essere di un libro: raccontare storie. Ispirare. Provocare. Far pensare e riflettere su se stessi e sul mondo che ci circonda. La lettura è una questione privata. Siamo solo noi e le parole scritte di uno sconosciuto. Certo, emozionare, è una cosa che un libro può e deve fare, ma un libro è diverso da un film o da una serie Tv, non è puro intrattenimento o relax.
(Una discorso a parte andrebbe fatto per i gialli o i noir, ma il post diventerebbe troppo lungo).
Lo può essere, per carità, ma non è questo il suo fine ultimo.
Io la penso così.
– Ti sei sfogato?
– Mi sono sfogato, William.
– Alla fine che libro hai comprato?
– L’ultimo di Percival Everett.
– Titolo?
– Percival Everett di Virgin Russell.
– Che significa? Qual è il titolo?
– Questo è il titolo: Percival Everett di Virgil Russell.
– È un titolo idiota.
– Esatto. Forse ho comprato il libro proprio per questo.
Francesco Aquino