Direttamente da Collisioni 2014 – Seconda Parte
Andare a sentire Art Spiegelman a Collisioni è una missione, la mia missione. Andare a vedere Art Spiegelman a Collisioni significa alzarsi alle otto di mattina in una piovosa e fredda domenica di luglio. Pensare che bisogna scendere dal letto, vestirsi, trovare parcheggio e prendere la navetta sotto la pioggia. Pensare anche che probabilmente lo avrà fatto apposta a fissare l’incontro così presto, per poi godersi il pranzo senza dover più preoccuparsi del pubblico. E come dargli torto.
Andare a ascoltare Art Spiegelman vuol dire trovarsi la storia del fumetto contemporaneo, tutta lì davanti a te. E lo ascolteresti per ore e ore mentre ti racconta di come i suoi genitori non fossero un buon esempio di integrazione nella società USA e che, così, ne ha scelti altri di Mum and Dad. Ovvero MAD, la rivista. Pagine come famiglia, fumetti come insegnanti: “da Archie ho imparato cosa fosse il sesso, con Zio Paperone ho studiato economia, con i Peanuts filosofia, con Little Lulu il femminismo e la politica con Pogo”. E poi continua, una vita trascorsa a fianco dei più grandi artisti del fumetto, tutta concentrata in un paio d’ore. Igort fa domande, Spiegelman si appassiona, ne esce una vera lezione ottimamente riassunta qui. Ovviamente presto si approda a Raw, la rivista rivoluzionaria a cui Spiegelman e sua moglie Francoise Mouly diedero vita dal loro loft di New York. Si parla di sogni e di quando con grande inventiva li si poteva vivere. Ora dubitiamo dell’inventiva, e dell’ingegno.
La velocità, invece, conta. “Nel tempo che impiega Igort a fare cinquanta tavole, io rifaccio la stessa tavola cinquanta volte”, scherza Spiegelman sottolineando ancora una rottura irrisolvibile tra presente e passato. Ma in fondo è solo una questione di metodo, ci si abitua. La vera lezione, comunque, è ancora sul tempo. Quello lungo, della storia. Sì, mi riferisco a Maus, il capolavoro. Mi chiedo se non sia stufo di parlarne, di rispondere ancora e ancora al perché abbia deciso di usare dei topi. Poi mi dico che è un pensiero stupido: se riuscissi a inventare una cosa come Mouse ne sarei così orgogliosa da parlare solo di quello ad amici e nipoti nei secoli dei secoli. E così lo lasciamo andare al suo pranzo annaffiato di Barolo, pieni di appunti su cosa leggere e con la fisica sensazione di aver incontrato i fumetti. Tutti.
O quasi. Perché subito dopo arriva Milo Manara. Stesso palco, stessa folla, stessa arte ma altri mondi. Si esce dall’underground statunitense, traboccante voglia di stupire, spaventare, di oltrepassare tutti i limiti. Si entra nell’eleganza del tocco sensuale, nell’Italia che vale la pena. E la penna. Qui senza lo sforzo della traduzione ci si può perdere in un passato magico, fatto di aneddoti su Ugo Pratt, su Fellini e il suo cappello che tornava sempre indietro, pure se lo perdeva sul raccordo anulare. E poi l’erotismo, non contro, ma prima della pornografia. L’erotismo come parte pregnante della vita di ciascuno e, pertanto, anche della vita di un fumetto. Semplice, senza i moralismi dei tempi di internet, resi necessari dall’abuso di pornografia staccata dalla vita di ognuno. “Del resto” dice il maestro “nel fumetto qualunque perversione è possibile in quanto si sviluppa completamente nel cervello, come in letteratura. Certo se si trasformasse in film, spesso diventerebbe insopportabile”. Bello ascoltarlo, bello vedere alcune delle sue tavole che sono state esposte per l’occasione. Il piacere mentale come forma estrema, quello che mi tiene seduta da quattro ore su queste sedie di plastica in Piazza Blu. Poi anche Manara se ne va, e io mi chiedo perché da piccola non ho mai letto fumetti. Credo mangerò qualcosa.
Oggi c’è una nota diversa nell’aria. Non credo sia solo la voglia di piovere che ha il cielo. I molti, forse i troppi, del concerto di Elisa se ne sono andati a dormire soddisfatti e non tutti sono ritornati oggi. Si può passeggiare, tendere un orecchio a un concerto rock, ballare al ritmo gipsy-jazz dei The Hot Pots. E così che entro nel mood adatto al prossimo nome nella mia lista.
Herta Müller. Premio Nobel per la letteratura nel 2009. Donna veramente cazzuta. Ha resistito in Romania nonostante la pressione costante dei servizi segreti, lunghi anni prima di spostarsi in Germania, dove non si sente completamente a casa. Ma ormai è partita e una casa non ci sarà più, neppure a Nitchidorf. Una vita di paura, paura sottile e costante di essere uccisa. Difficile associare le sue parole al soffio leggero della voce, all’eleganza composta e un po’ soprappensiero di quella donna seduta sul palco. Parla di cosa si prova nel tornare a casa e capire che qualcuno è stato lì, qualcuno che vuole tu sappia che è stato lì, e può tornare in ogni momento. Racconta di come si debba vivere in una lingua che non sarà mai completamente tua, e subito penso a un’altra grande maestra, Agota Kristof, alla lingua nemica con cui ha composto i suoi capolavori. Poi Luca Rastello la interroga a fondo sulla realtà attuale dei profughi, sulle risposte che dovrebbe dare la politica. Disarmante la Müller, parla del bisogno che conosce bene, quello del doversene andare da un posto perché non ci sono altre possibilità. Del doversene andare sapendo che probabilmente sarà per sempre. Una scelta grande per l’individuo, ma debole di fronte alle politiche. Se ci sono risposte concrete a queste domande, non è una profuga che le può dare. Mentre forte e chiara è la sua opinione sulla memoria che, se non è accompagnata da un’analisi attenta del passato, sfocia nel nazionalismo. “Il problema è se il passato lo si è capito, più che se lo si ricorda”. Poi dritto l’attacco a Est “questo gioco infame che sta facendo Putin in Ucraina non sarebbe possibile se si fosse davvero discusso lo Stalinismo. Non possono nascere strutture democratiche senza scardinare il passato. Del resto, se ci fosse democrazia in Russia, non ci sarebbe Putin.”
Riflessioni riscaldate dal suo passato, dalla sua memoria, eppure acute e attuali, soprattutto in un tempo di abuso del termine “memoria” al di là di ogni riflessione sui sui significati. Memoria. Voglio avere memoria di questa giornata nelle Langhe, di come ho ascoltato alcuni dei più grandi maestri viventi nel mezzo di una terra di lavoro e fatica, di migranti e poeti. La sera arriva mentre seduta sull’asfalto guardo Dario Fo che diventa contadino dell’antica Cina, e poi tigre, e poi si interrompe e guarda il sole che cala dietro le vigne e ringrazia di essere qui. Io non so chi ringraziare, ma mi sento bene, piena di cose vissute da altri che credo in qualche modo mi torneranno utili. O forse no, ma erano così belle che non serve altro.
– Giulia Grimaldi –