• di Host
  • Martedì 13 maggio 2014

Marocco, fiore del deserto

Il Café Hafa è un sorriso calmo sull’oceano.

Le sue terrazze degradano verso la spiaggia tra tè alla menta e le musiche dei jilala. Qualcuno fuma il kif, scherzando con gli amici, mentre le donne, fasciate in abiti morbidi, scivolano rapide verso il sentiero in ciottolato che dal porto conduce alla Medina. Avanzano, leggere e discrete, sfiorando le gonne plissettate con quelle dita troppo secche e fragili per poter suscitare un qualche interesse, mentre le piazze iniziano a depurarsi, vuote e silenziose, dall’aria pesante della sera.

Odorano di sale i vicoli di Tangeri. E nei dintorni si perdono a vista d’occhio le botteghe di artigiani e i negozietti di tappeti, bijoux berberi e spezie. Difficile immaginare scenografia più suggestiva di questo labirinto di pietra cotta al sole riversata sull’Atlantico, tra palme, torrette merlate e appartamenti con i soffitti in legno di cedro affacciati sulle ruelles invase da bimbi vocianti.

Suoni che si mescolano e crescono di volume fino a confondersi col tono salmodiante degli himam, degli incantatori di serpenti e dei tintori che vendono stoffe a poco prezzo.

Un universo multietnico e cosmopolita, che ha stregato gli autori della Beat Generation, da Paul Bowles a Jack Kerouac, passando per William Burroughs. Si racconta, infatti, che i tre abbiano trascorso diverso tempo a Tangeri, animandone la vita culturale e inspirando l’anima intellettuale locale.

Nell’hotel el-Muniria ha soggiornato Kerouac, mentre Burroughs vi ha ambientato il suo Pasto nudo. Quest’ultimo è stato un habitué del Café Central, affacciato sul Petit Socco (una piccola piazza situata nella Medina), che ancora oggi rappresenta il punto di ritrovo degli stranieri di passaggio a Tangeri. L’hotel Continental, inserito nell’area portuale, è, invece, la location che Bertolucci ha scelto per il celebre film Il tè nel deserto.

Il mito di Paul Bowles e dei suoi Senza mai fermarsi e Lascia che accada, i romanzi che meglio descrivono l’atmosfera di Tangeri, i suoi misteri, l’inimitabile fascino fané, decadente, nonché le “onde” culturali provenienti dal Maghreb viene celebrato attraverso un festival della letteratura, che si svolge a ottobre nella piazza del Grand Socco, all’interno del vecchio cinema Rif. Un modo per rendere omaggio a un territorio fertile di storie – al di là di quell’ottica che ha sempre guardato a quest’area con l’occhio impastato del dibattito ideologico, impegnato e un po’ triste.

E a chi chiedeva a Paul Bowles perché avesse passato gran parte della sua vita a Tangeri, rispondeva: per la rete di cunicoli invisibili che la stregoneria scava intorno al sonno, alludendo al viaggio lisergico e ipnotico, dal quale il viandante in visita alla città marocchina difficilmente riesce a sottrarsi. Sulla stessa scia è il commento di William Burroughs: Tangeri è davvero il polso del mondo, come un sogno che si estende dal passato al futuro, una frontiera tra il sogno e la realtà […]. Qui nessuno è ciò che appare.

La città degli scrittori, sì, ma anche dei registi. Le maestose architetture color ocra delle casbah, dove la vita scorre a ritmi ancestrali, hanno ispirato produttori e cineasti, trasformando quest’area protesa sullo stretto di Gibilterra nella nuova “Hollywood marocchina”.

Nel 2006, il regista Faouzi Bensaïdi ha girato a Tangeri una commedia pop e colorata, WWW – What a Wonderful World: un incontro impossibile tra Tati e Tarantino, con omaggi ad Almodòvar e a Wong Kar-wai. La pellicola, che Yto Barrada – fotografa e artista franco-marocchina – ha definito un faro in un panorama culturale cupo, ma con un glorioso passato, non è mai arrivata in Italia, se si eccettua una fugace apparizione al Festival di Venezia.

Lo stesso incanto attraverso il quale scrittori e registi guardano al Marocco si ritrova anche nella pittura di Eugène Delacroix, che, dopo essersi inoltrato nei souks di Tangeri, ha dichiarato: Sono sempre più stordito da quello che vedo, sono in questo momento come un uomo che sogna e che vede delle cose che non crede di vedere. Curioso e insaziabile, l’artista francese si fermò ovunque, disegnando il viso di qualche soldato appoggiato ad una porta o ritraendo le donne marocchine coperte dai drappeggi dei loro haiks. E ancora, le carovane di dromedari sui cammini antichi, l’allure di un caftano, i particolari di un banco di spezie.

Delacroix ha dipinto la voluttà, la passione, la rabbia, la violenza, miscelati a quello che di più dolce può esistere nelle pieghe dell’animo umano: un sublime inno alla Bellezza, quella vera.

E, in questo, ha saputo cogliere l’essenza del Marocco, fiore del deserto.

– Paola Tribisonna –

 

Host

Nata nel 1994 a Torino la Scuola Holden è una scuola di Scrittura e Storytelling dove si insegna a produrre oggetti di narrazione per il cinema, il teatro, il fumetto, il web e tutti i campi in cui si può sviluppare la narrazione. Tra i fondatori della scuola Alessandro Baricco, attuale preside.