Viaggio a New York
New York non mi è mai piaciuta. Uno stereotipo fatto di vetro, vestiti firmati, gas che si alzano dai tombini e foglie che ingialliscono nella luce di un una perfetta giornata d’autunno. New York no. La banalità. Tutti liberi di esprimere se stessi, a prescindere da quello che ci sia da esprimere. New York di brunch e cocktails in barattoli delle serie hipster, così come la New York tutta foschia, bourbon e ciambelle dei polizieschi. New York ricca, New York povera. Gli Hamburger e i bagel, il crogiolo di razze, le sparatorie e la statua della libertà. New York non rappresenta l’America e i newyorchesi non lascerebbero mai il loro quartiere. Ok, perché so tutte queste cose di una città che non ho mai visto e che non voglio vedere? New York, il mito che ci rende ancora Mangia Spaghetti. New York e la sua magia, il buon vecchio nuovo mondo. Non fa per me, dicevo. No, thanks. Però poi ho letto Underworld.
E’ così che è iniziato il viaggio. Ed era talmente denso di immagini, persone, odori che dopo essere stata assalita da tutta la gamma di emozioni, il libro è finito e io ne volevo ancora. Sicuramente volevo più storia, volevo più personaggi. O forse, volevo più New York. E così me la sono andata a cercare, mi sono persa tra i suoi quartieri e tra i tempi che la raccontano. Ora è una rampante operaia di inizio secolo, ora un dandy stanco della vita, un pazzo al vertice della carriera, un hipster frustrato dei giorni nostri. E la prima cosa che capisco è, dunque, di non temere la confusione. I nomi delle strade, dei quartieri, le epoche storiche, lasciamo che tutto si confonda fino a farci girare la testa. Non c’è da aver paura, perché New York è una città di fantasmi. Sembra una cosa pericolosa, ma questa storia dei fantasmi torna in vari libri e, infine, mi pare di capire. Credo noi europei la chiameremmo semplicemente Storia. Fantasmi, ovvero le tracce di chi ha vissuto prima di noi in quei luoghi. Mi viene da sorridere a pensare quanto grande dovrebbe essere Roma per contenere tutti i fantasmi che la popolano, eppure è affascinante pensare che chi è andato abbia lasciato delle tracce di sé, oltre ai muri fatiscenti, qualcosa di più, qualcosa che potrebbe avere il potere di influenzare i comportamenti di chi verrà. Eric Cash, di Lush Life, si era fatto l’idea che il Lower East Side fosse infestato da fantasmi e cammina tra loro nel tragitto fino al lavoro. I suoi fantasmi sono “le teste dei satiri di pietra ormai erose che sorridevano lascive fra le cornici bucherellate dell’Erotic Boutique, nelle scritte sbiadite in ebraico sopra il caffè socialista diventato un salone per massaggi orientali”, sono le tracce lasciate dal boom yeddish del diciannovesimo secolo. E anche Auster è d’accordo con Price, poiché anche lui si sofferma parlare di Playmouth Curch, Brooklyn, dicendo “Vi sono passati molti grandi uomini, osserva Black. Abramo Lincoln, Charles Dickens…tutti hanno percorso questa via e sono entrati in chiesa.
Fantasmi.
Sì, i fantasmi sono dappertutto.”
Fantasmi come compagni di viaggio e una città da capire. E cosa meglio della narrativa, della fiction, ovvero dell’invenzione può spiegare meglio New York. I film ci impongono attori, gesti, sguardi. I libri, invece, quelli fanno passare, di nascosto tra una riga e l’altra, qualcosa che viene prima della rappresentazione. Oltre le storie, insomma, si nasconde la città. E tanto per mettere le cose in chiaro questo non è un tour alla Sex and the City, infatti partiamo da una città di miseria e mostri, oltre che di fantasmi. Lo dice Henry Miller e lo racconta il New York Times. Eppure i libri ci confortano. I mostri sono ovunque. Ellis ci presenta, tra gli altri, “una vecchia barbona (che) impugna una frusta e la fa schioccare all’indirizzo dei piccioni, che però la ignorano, continuando a beccare e a battersi voraci sui resti di hot dog”. Quinn, il protagonista di La città di Vetro, segna sul suo prezioso taccuino rosso che “oggi, come mai prima: i barboni, gli spiantati, le vagabonde con i sacchetti della spesa, i miserabili e gli ubriachi. Variano dal semplice indigente al relitto umano. Dovunque ti giri, te li trovi davanti, nei quartieri alti come nei bassi fondi.” Anche Doctorow ci racconta dei poveracci, ma essendo a inizio secolo è difficile distinguere i futuri barboni di professione dagli immigrati che vivono nel Lower East Side, “uomini con grossi baffi sorridevano con i loro denti d’oro. Nella calura, dei fannulloni sedevano sull’orlo del marciapiede, sventolandosi con una bombetta”. Scum, direbbe Scorsese per farla breve, la feccia che invade la città.
Ma se ovunque son fantasmi, e feccia, e mostri, come è possibile che ci si continui a innamorare di New York? Forse, ancora, è colpa delle storie, di tutte le possibili storie recise che si trovano dietro a un uomo che si è perso. Nessuno è sempre lo stesso personaggio, ci ricorda Auster, Quinn si trova a lavorare e vivere per strada, mentre un nobile decaduto come Stillman si mischia agli ubriaconi dell’Hotel Harmony per sviluppare la suo folle ricerca, dice infatti “Il mio lavoro è molto semplice. Sono venuto a New York perché è il più miserabile, il più abietto di tutti i luoghi. Lo sfacelo è ovunque, la disarmonia è universale. Le basta aprire gli occhi per accorgersene. Persone infrante, cose infrante, pensieri infranti. La città intera è un ammasso di rifiuti”. Niente è come sembra, a New York, persino Bateman, il perfetto ragazzo della porta accanto che si trasforma in killer spietato.
Questo affascina, e poi ci sono i lustrini. Le luci della ribalta, il potere dei soldi facili che facili poi non sono, il desiderio di successo e il sogno americano. La speranza. Questo fa chiudere gli occhi e tappare il naso, camminare guardando dritti avanti a sé e fare come se l’immondizia non fosse lì. Mi par di vederla Holly Golightly che passeggia per l’Upper East Side come se la bambina stanca e affamata che era una volta vivesse nel passato di qualcun altro. L’ambizione e la bellezza avanzano a grandi falcate strette nei suoi outfit di impeccabile gusto, mentre la realtà la circuisce sotto forma di uomini potenti, di cui crede di avere bisogno, un po’ come la Evelyn di Ragtime, che viene però salvata da una fantastica Emma Goldman che la libera dal corsetto, e prova a incrinare il suo destino di donna da comodino. Certo Holly ha un qualcosa di selvaggio e forte, qualcosa che sgomenta il narratore, ma che non basta a darci una figura di donna a tutto tondo. Ecco, forse New York manca un po’ di donne, donne vere non le bionde corpoduro, ma non manca di specchietti per le allodole. Prendi Ellis, per esempio “Al Pastels McDermott conosce il maître e anche se abbiamo prenotato dal taxi appena pochi minuti fa ci accompagnano subito oltre il bar sovraffollato (…) E’ davvero impossibile riuscire a prenotare al Pastels e Van Pattern, io e persino Price siamo credo non solo impressionati ma forse addirittura invidiosi dalla sbalordiva capacità mostrata da McDermott nell’assicurarsi un tavolo.” Ellis parla del mondo di Wall Street, dei fiumi di denaro e del sistema di cose che contano, tanto, rispetto a quelle ininfluenti. Ma non c’è bisogno di arrivare al top della finanza per ritrovare lo stesso bisogno di esclusività, Naqvi ci porta nel nuovo secolo dove “situato alla periferia di Tribeca, il Tja! non attirava spesso i passanti o la banale gente comune, forse perché l’ingresso non era transennato con cordoni dorati e all’esterno non c’erano buttafuori o travestiti incazzati a guardia. Era un locale tenuto nascosto in cui si entrava solo per invito a passaparola o strizzatina d’occhio.”
Desiderio di successo, traguardi raggiunti, sogni infranti. E poi c’è tutto il resto. Ci sono i Newyorchesi veri, come il signor Bronzini, che nell’autunno 1951 se ne andava in giro per il South Bronx a osservare e meditare e bere e chiacchierare. “Le bambine giocavano a jacks e a tocco rialzo. I ragazzi a palla prigioniera, a biglie e aringolievo.” O come Dylan, che negli anni settanta si trova catapultato nel mondo di Gowanus, Brooklyn, e viene istruito da Marilla su come si giochi a skully o sulla necessità di imparare a giocare con una spaldeen.
Si potrebbe continuare con la New York del giovane Holden, della Grand Central Station quando aveva le cabine telefoniche, si potrebbe guardare la città dall’altra riva del fiume assieme a Fitzgerald, o tornare alla New York post 9/11 mutilata e tremante. Per chi volesse continuare il viaggio, qui c’è qualche consiglio su cosa leggere ma credo non ci sia miglior modo di entrare a New York, se non con le parole di De Lillo “parla la tua lingua, l’americano, e c’è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza”.
– Giulia Grimaldi –