• di Host
  • Mercoledì 19 febbraio 2014

Being Spike Johansson

“Did anyone text me?
Is anyone thinking about me?
Does anyone love me?”
Spike Jonze

Dovremo aspettare il 13 Marzo per vedere in sala il tanto chiacchierato Her (titolo italiano Lei) scritto e girato da Spike Jonze (Essere John Malkovich, Il ladro di orchidee, Nel paese delle creature selvagge) e più che apprezzato lo scorso autunno al Festival di Roma. La notizia (vecchia) è che a doppiare Samantha, il sistema operativo con la voce di Scarlet Johansson di cui Theodore (Joachim Phoenix) si innamora, sarà l’attrice romana Micaela Ramazzotti (La prima cosa bella, Tutta la vita Davanti).

In rete qualcuno lamenta il rischio che il film, basato su una potente interpretazione vocale della Johansson, perda almeno il 50% della sua forza se il doppiaggio della Ramazzotti non sarà altrettanto efficace. È inutile fasciarsi la testa: per ora della versione doppiata abbiamo soltanto un trailer di 2 secondi e mezzo, pochi per giudicare. Certo è che nel nostro paese manca una riflessione a monte su quale sia il modo migliore per la fruizione di un’opera: Lei (per cui ricordiamo che la Johansson ha vinto a Roma il premio come miglior interpretazione femminile pur non apparendo mai nel film) è un’opera che ha poco senso fruire doppiata, proprio proprio come Gravity è un film che ha poco senso fruire senza il 3D. Come farà il pubblico a godere della miglior interpretazione della Johansson se a interpretarla sarà un’altra persona?

Ma veniamo al film. Her è una storia d’amore che dura più di due ore e in cui uno dei due innamorati è un sistema operativo. La conversazione tra Theodore e Samantha si scioglie man mano che lei – programmata su di lui – accumula dati sull’esperienza umana di provare sentimenti. Samantha impara così bene che giunge a provarne molti più di Theodore alla medesima intensità. La fase dell’innamoramento è lunga, Jonze ci deve convincere che quello che sta raccontando è più che possibile. Quando Theodore ha una défaillance, a Samantha trema la voce. Lui torna sui suoi passi. I due si riavvicinano. Scatta una fase due, durante la quale Samantha conosce gli amici di Theodore; dove insieme si concedono una breve vacanza. Fase necessaria per sondare i casi limite dell’idea di Jonze, ad esempio uscire con la fidanzata chiusa in un iPod e sentirsi normale.

Insieme al debutto in società arrivano i gossip: si vocifera che innamorarsi del proprio sistema operativo e essere ricambiati sia rarissimo; che certe persone si innamorino dei sistemi operativi di altre persone. Intorno c’è una Los Angeles perennemente al tramonto, la cui luce calda passa attraverso le lenti di Lance Acord (direttore della fotografia in tutti i film di Jonze) e Hoyte Van Hoytema (La Talpa), e il cui skyline ci ricorda da dove viene Jonze (suoi i videoclip di Sonic Youth, R.E.M, Beastie Boys, Fatboy Slim, Arcade Fire, Björk) e l’indiscusso valore delle sue scelte registiche. La colonna sonora by Arcade Fire è parte integrante della conversazione.

In Her ci sono anche tutte quelle cose per cui un esperimento tecnologico (esercizio metafisico?) diviene un brillante pretesto narrativo per fare filosofia. Siamo nel futuro ma il futuro è come adesso: la gente che parla da sola, con l’auricolare nascosto nell’orecchio; la solitudine delle separazioni, nonostante i piani alti e tutte quelle finestre; l’innamoramento che ignora l’ovvietà della sintonia che esiste quando l’oggetto d’amore è stato programmato su di noi; la ridefinizione della prossemica e dei suoi spazi (la chiamavano intimità); la difficoltà di uscire da se stessi e dirsi comunque animali sociali.

Theodore ha un lavoro anacronistico. Scrive lettere d’amore su commissione per la BeautifulHandwrittenLetters.com. I suoi clienti li conosce da anni, si può dire che li ha visti crescere. Insieme all’eccesssiva lunghezza della prima parte dell’innamoramento, la decisione di affidare a Theodore un lavoro simile non convince. Fa pensare alla scelta (ben più felice) che Charlie Kaufman fa in Essere John Malkovich (regia di Jonze), ossia di affidare al protagonista Craig Schwartz (John Cusack) la mansione di burattinaio in un film che in sostanza parla delle brezza di essere burattinai. In Her pare quasi forzato. A risuonare magistralmente è invece l’eco del flusso di coscienza dei dialoghi di Kaufman: lo sviscerare verbale dei significati con cui Theodore nutre la sua Samantha è il tentativo instancabile di spiegare (spiegarsi?) ciò che si vive e quasi mai si dice. Jonze invita lo spettatore a fermarsi e a riflettere su cosa sente quando, cosa significa se. Lo fa di continuo, attraverso le domande della Johansson spesso al limite della tautologia. L’impressione è che tutti in questo film parlino di sé, da soli, e che chi guarda, si limiti ad assistere. La partecipazione, l’empatia, ecco, ho la sensazione che dimorino altrove e che solo a un passo dalla conclusione, quando l’amore-devozione si trasfoma in amore-delusione, riprendano saldamente il loro posto insieme a un inatteso ottimismo.

Nel Ladro di orchidee, altro lungometraggio della premiata coppia Jonze e Kaufman, il protagonista (un bravo Nicholas Cage nel ruolo dello stesso Kaufman) cerca di evitare il voice over con cui il film si appresta a finire, domandandosi: How else can I show his thoughts? Her è forse la risposta di Jonze a Kaufman che arriva con 11 anni di ritardo, solo un anno di più di quelli che Jonze ha dichiarato di stare pensando a un film come Her.

Dopo essersi aggiudicato il Golden Globe per la miglior sceneggiatura, il film di Jonze è stato candidato a 5 premi Oscar (Miglior Film – forse la nomination più inattesa; Miglior Sceneggiatura; Miglior Colonna Sonora; Miglior Canzone – The moon song; Miglior Scenografia). Peccato che, comunque andrà al Dolby Theatre di Los Angeles la sera del 2 marzo, quello che vedremo noi, in Italia, sarà al 50% un altro film.

– Carolina Crespi –

Host

Nata nel 1994 a Torino la Scuola Holden è una scuola di Scrittura e Storytelling dove si insegna a produrre oggetti di narrazione per il cinema, il teatro, il fumetto, il web e tutti i campi in cui si può sviluppare la narrazione. Tra i fondatori della scuola Alessandro Baricco, attuale preside.