Shardana, la terra della memoria
C’è un mistero in mezzo al mare: è la Sardegna.
Ruvida e fiera, l’isola del Mediterraneo è un’oasi popolata da millenari olivastri, nuraghi e grotte di rara bellezza. Fin dall’età della pietra, la presenza umana è testimoniata dalle domus de janas, le “case delle fate”, luoghi di culto funerari scavati nella roccia calcarea, che oggi ospitano famigliole di pernici, qualche falco pellegrino e gli eleganti “cavalieri d’Italia”, dalle lunghe zampe rosse e il becco aguzzo. Tutt’intorno, gli arbusti, tra i quali spiccano le euforbie arboree che, in periodo di siccità, assumono l’aspetto di enormi coralli rossicci, dietro cui si nascondono i cuccioli grufolanti di cinghiale. E ancora, qualche raro esemplare di ginepro fenicio da cui si estrae un olio essenziale purissimo e il profumo di rosmarino misto alla spuma del mare.
Un viaggio nel cuore della Sardegna attraverso lo sguardo di un’errante, di chi guarda alla sua terra con nostalgia e, insieme, devozione, senza dimenticare le tante, troppe domande sugli scenari futuri che attendono chi, con tenacia e perseveranza, quell’isola non l’ha mai lasciata.
Così, sotto il cielo di uno spicchio di terra che sembra verde, come olio appena spremuto, si può sentire il respiro esalato da una comunità che tutti i giorni fa i conti con le forme di una socialità “interstiziale”, sospesa nel tempo e in un luogo in cui “la modernità ha trovato il cancello chiuso”, come ha affermato lo scrittore barbaricino Marcello Fois.
Una terra che ha imprigionato un paesaggio che le parole faticano a contenere, così come infinitamente ampio appare l’orizzonte chiuso dalle montagne, sulla cui schiena se ne sta appollaiata “la luna grassa e sudata” evocata proprio da Fois nel romanzo Memoria del Vuoto (Einaudi) .
In mezzo a una natura aspra e selvaggia si staccano, come figure scolpite nel sughero, gli allevatori e i contadini, quella “umanità di resistenti” descritta abilmente dall’autore sassarese Alberto Capitta nel romanzo Alberi erranti e naufraghi (Il Maestrale). Natura matrigna, che dà e toglie, nel cui seno giacciono morti d’acqua e morti di fuoco, roghi e diluvi. “La Sardegna sembra divenuta la sede di una biblica resa dei conti, niente le viene risparmiato ”, ha dichiarato Capitta.
E, in tutto questo, l’amministrazione locale non è esente da colpe. “Il santuario della natura di un tempo è diventato un gioco da tavolo dove tutti possono gettare bombe, erigere alberghi, spostare fiumi, prosciugare stagni, muovere carri armati”. Con le teste cannibalizzate dalla sete di profitto si è fatto un passo indietro rispetto alla possibilità di uscire da un contesto retrogrado, ostaggio di una burocrazia cieca ai bisogni del suo popolo. E, ora, da questa situazione bisogna ripartire.
Ce l’ha insegnato Francesca Balbo, regista milanese, che cosa significa voltare pagina, facendo tesoro dell’immenso patrimonio culturale e valoriale di cui dispone l’isola. Un serbatoio di storie da preservare, rispettare, mettere in scena. Attraverso il documentario Cadenas (Catene), con sguardo curioso e indagatore, la regista ci porta alla scoperta di quella parte di Sardegna che si snoda tra la Trexenta, il Campidano e il Gennargentu, una zona percorsa da un treno senza tempo, il cui passaggio è salutato da piccoli puntini gialli che agitano una paletta verde e rossa: le guardia-barriere. Un lavoro che si eredita in linea femminile da generazioni. Ad ogni incrocio presidiato da una signora col giubbottino fluorescente il macchinista tira una corda e alza il braccio per salutare. Il treno supera con un fischio la guardia-barriera e si dissolve nella polvere, scomparendo dietro una curva: a quel punto, uomini, macchine e animali sono finalmente liberi dalla catena che chiude l’accesso ai binari. Intorno, il paesaggio alterna campi gialli e muretti a secco, pianure macchiate di cactus e strette gole di montagna. Un racconto semplice, che, nell’epoca della sovrabbondanza tecnologica e della velocità, sembra più vicino a un film di Rossellini.
Descrivere la Sardegna al di fuori dei cliché è possibile, restituirne l’anima è un’impresa più ardua. Una fusione di bellezza e ruvidità emerge dalle istantanee sulle torri abbarbicate alle rocce, dai cupi riflessi bluastri del mare, dai gesti, perché quelli sì, raccontano più di tutto. Un luogo dove uno sgarbo, anche il più piccolo, può portare ad inimicizie eterne, una terra in cui uomini e animali convivono non solo nella vita reale, ma anche nel linguaggio e nelle credenze: gli assassini hanno il cuore a forma di testa di lupo, i matti l’hanno a forma di testa di scimmia, i minorati a forma di testa di pesce.
Tutto questo (e molto altro) è Shardana, il cuore pulsante di un’isola che chiede soltanto che i sogni e le speranze dei suoi abitanti non vengano sepolti dagli speculatori, dai trafficanti di appalti, da chi questa terra non l’ha mai amata.
– Paola Tribisonna –