Stephen King Vs La Nera Mietitrice
Ultimamente, la domanda a cui cerco di trovare una risposta è questa: cosa spinge certi scrittori a pubblicare anche quando sarebbe meglio non farlo? Stephen King, per esempio. Io Stephen King lo amo. Mi ritengo un suo fan. Ma certe volte quello che scrive proprio non riesco a farmelo piacere.
Nell’arco della sua carriera, King ha pubblicato trentasette romanzi. Quarantaquattro, se conto anche quelli scritti con lo pseudonimo di Richard Bachman; cinquantadue se aggiungo quelli che appartengono alla saga western-fantasy La Torre Nera. Se ho fatto bene i calcoli (e li ho fatti), a partire da Carrie King ha mantenuto una media di un libro e mezzo all’anno. E anche quando la qualità letteraria calava – e certe volte calava in maniera davvero imbarazzante – non ha esitato a far comparire il proprio nome in libreria.
Di contro, cosa spingeva certi altri scrittori a scrivere e pubblicare in maniera tanto refrattaria e irregolare? Per esempio.
Che cosa passava per la mente di J.D. Salinger quando decise che Hapworth 16, 1924 (apparso su un numero del New Yorker nel 1965) sarebbe stato il suo ultimo racconto? Probabilmente lo stesso pensiero (ma di segno opposto) che passò per la mente di Henry Roth, quando decise di rompere un silenzio protrattosi per ben cinquantacinque anni. Tanti ne erano trascorsi, infatti, dalla pubblicazione di Chiamalo sonno (1934) a quella di Una stella sul parco di monte Morris (1989).
È vero che non tutti gli scrittori hanno il talento necessario per trovare sempre delle nuove storie da raccontare.
Non Stephen King. Anche per questo, forse, nelle sue storie c’è un po’ di tutto.
C’è un albergo tra i picchi innevati delle montagne del Colorado che pare sia stato costruito su un antico cimitero indiano. C’è un’automobile che terrorizza e uccide gli abitanti di una piccola cittadina americana. C’è una barchetta di carta di giornale che scivola “lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia” per poi finire nelle fauci di uno scarico fognario, là dove rilucono un paio di sinistri occhi gialli e palloncini, tanti palloncini colorati che galleggiano. E tante storie, sembrerebbe: tante quanti sono gli oggetti che riempiono il nostro quotidiano.
Ci avete mai pensato? Credo c’entri qualcosa il fatto che Stephen King sia uno scrittore dell’orrore. A ben riflettere, anche Edgar Allan Poe (che tra gli scrittori dell’orrore è stato senza dubbio il più grande) ha scritto molti racconti la cui trama ruotava intorno a degli oggetti: Il pozzo e il pendolo, La lettera rubata, Il cuore rivelatore, Il barile di Amontillado. E Stephen King narra le vite straordinarie di altrettanti oggetti in modo da raccontare il lato oscuro del Sogno Americano.
Nato nello Stato del Maine nel 1947, trascorre l’infanzia e la giovinezza tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Guerra Fredda. Si tratta di un periodo durante il quale gli americani vanno alla ricerca della felicità (come sancito nella loro Dichiarazione di indipendenza) e desiderano tutti quanti le stesse cose: la casetta a schiera con il giardino, l’automobile posteggiata nel vialetto, il frigorifero, il televisore. Nel frattempo, una serie di eventi terribili smaschera ogni tentativo di recuperare l’innocenza perduta. C’è la crisi missilistica cubana (1962), l’omicidio Kennedy (1963), lo scandalo Watergate (1972) e la Guerra del Vietnam (1960 – 1975).
Ma le storie narrate da Stephen King non si limitano a stare tra le migliaia e migliaia di pagine dei suoi best sellers.
Tra film destinati alle sale cinematografiche (Shining, La zona morta, L’ultima eclissi, The Mist), film realizzati per la tv via cavo (Le notti di Salem, L’incendiaria), miniserie a puntate (It, L’ombra dello scorpione, Bag of bones) e serial (da La nonna, episodio per Ai confini della realtà, passando per Haven e Under The Dome), c’è soltanto l’imbarazzo della scelta. Fatta eccezione per William Shakespeare, Stephen King resta l’autore a poter vantare il maggior numero di trasposizioni cinematografiche.
Come se non bastasse, King ha sperimentato ogni possibile formato narrativo. Nel 1996 con Il miglio verde ha scritto un romanzo a puntate alla maniera di Charles Dickens; nel 1997 ha scritto e sceneggiato Ghost, un video musicale interpretato da Michael Jackson; nel 2000 ha sorpreso il mondo editoriale con un racconto, Riding the Bullet, acquistabile soltanto attraverso il web (per leggerlo occorreva collegarsi al sito della casa editrice Simon & Schuster, e, tramite un servizio di sicurezza on line, scaricare il .pdf sul proprio computer); nel 2009 ha venduto un altro racconto on line, UR (scritto appositamente per pubblicizzare il Kindle di Amazon); nel 2012 ha scritto per il cantante John Mellencamp il musical Ghost Brothers of Darkland Country.
Magari la scrittura di una storia è una faccenda che Stephen King lega strettamente a un ritorno economico. Come riporta nel suo On Writing: Autobiografia di un mestiere, a sei anni scrisse un racconto che aveva come protagonista un coniglio bianco che, assieme a certi suoi amichetti, viaggiava a bordo di un’automobile. King fece leggere questo racconto a sua madre e lei lo trovò “abbastanza buono da stare in un libro”. Quindi chiese al figlio di scrivere altri quattro racconti, per poterli spedire in lettura alle sue sorelle. La madre di King pagò ogni racconto un quarto di dollaro. Quello fu il primo dollaro guadagnato da Stephen King con la scrittura.
Adesso King è ricco. Ricchissimo, anzi. Secondo la rivista Forbes, nella lista delle cento celebrità più influenti del Pianeta, King occupa la settantacinquesima posizione. I suoi libri hanno venduto 350 milioni di copie in tutto il mondo. Perché continua a pubblicare allo stesso ritmo forsennato degli esordi?
All’epoca, King era costretto a svolgere due lavori per sbarcare il lunario; insegnante (a 6000 dollari l’anno) e operaio in una lavanderia industriale (a un dollaro e venticinque l’ora). Quei tempi, per sua fortuna, sono finiti. E il mero discorso economico, comunque, non mi ha mai convinto.
Non mi aveva convinto neppure quando venni a sapere che per rimediare a certi conti in rosso riguardanti le sue stazioni radiofoniche (la WZON-AM, che trasmette cronache sportive locali, e la WKIT-FM, che trasmette musica rock), King tentò, senza successo, di realizzare alcuni sceneggiati radiofonici – alla maniera di Orson Welles e della sua celebre “Guerra dei mondi”.
Allora perché? Forse Stev-O continua a scrivere, e a pubblicare, per esorcizzare la povertà che ha caratterizzato il suo apprendistato; quando cercava disperatamente di piazzare un nuovo racconto per comprare le medicine ai propri figli.
Me lo sono chiesto e richiesto un’infinità di volte, insomma. Poi, un giorno, l’ho scoperto. Ho scoperto le ragioni di questa continua presenza sugli scaffali delle librerie di mezzo mondo.
Nel 2007 la Marvel decise di realizzare una serie a fumetti tratta da La Torre Nera. Peter David l’avrebbe sceneggiata e Jae Lee l’avrebbe illustrata. King avrebbe ricoperto il ruolo di Direttore Creativo ed Esecutivo. Quando uscì il primo numero, La Nascita del Pistolero, trovai all’interno del volumetto una lettera aperta scritta da King. Una lettera. Al posto di un fumetto. “Perché è così che funziona la mia mente,” scrive King. “Molto presto l’idea sarebbe diventata una storia, e sarei stato qui tutta la notte. Quindi una lettera dovrà bastare. Una lettera un po’ incoerente.”
Nella lettera (altro che incoerenza!) King rivela: “Ci sono tante storie. Non riuscirei nemmeno a cominciare a raccontarvele. Quando la Nera Mietitrice verrà da me, probabilmente le dirò: «Aspetta! Aspetta! Devo dirti quella del tizio che…» E così via. Bla bla bla.”
Ecco la risposta alla mia domanda. Stephen King, il maestro dell’horror contemporaneo, si è trasformato nella Sherazad di se stesso. Oppure, provando a ricorrere alle centinaia di personaggi creati dalla sua fervida immaginazione, King ha assunto le sembianze di Annie Wilkes, l’infermiera psicopatica che costringe il suo romanziere preferito, Paul Schedon, a riportare in vita la sua eroina del cuore, Misery Chastain, e a scriverne le avventure per sempre.
Nient’altro che la paura della morte, quindi. La vecchia, intramontabile, imperitura paura di morire. Ecco quello che costringe Stephen King a scrivere. E a raccontare storie.
– Francesco Gallo –
Immagine presa qui.