Destinazioni
Intermezzo sulla smarrita unità di misura dell’amore
Vi è mai capitato di non sapere più cosa significa essere innamorati? Pensateci un attimo. L’innamoramento è uno stato. Non è una semplice questione di amore o disamore; ha molto a che fare con la conoscenza di sé e molto poco col comprendere l’essenza di un sentimento. Insomma, vi è capitato di confrontarvi con un buon amico e fuggirne le risposte perché vi sembrano involute; di cercarle da soli, nei mondrianeschi racconti di Cortázar e finire col ripararvi nella lirica cristallina di Valerio Magrelli? Schiena scomoda appoggiata alla testiera del letto, tazza di latte e cioccolato alla mano e un pacchetto di Camel sul comodino da far durare tutta la notte. Ebbene, mi piace pensare che, tardi o tosto, questo subdolo traballare di argenteria investa ciascuno di voi. E che dopo lo scintillio di Magrelli torniate a Cortázar e alla sua lirica dell’essere che dello stare se ne infischia, perché é dell’essere, signori, che si parla quando ci si innamora.
L’amore, come la morte, pare una conversazione senza limiti con il destino, all’interno della quale l’innamorato si perde, il soggetto sbiadisce, come diluito in quella che potrei definire dialettica, ma che forse è solo un tentativo, tanto goffo quanto necessario, di prendere le misure dell’altro. È qui che l’innamoramento Cortázariano si svela e, dimentico del popolare battito animale, sfoggia ossessioni e leggerezze, ironia laddove ci si aspetta contegno, commozione, lamento e melodramma quando si richiede di agire.
«Desiderarla come un termine, veramente come l’ultima stazione dell’ultimo metro della vita, e allora il pozzo, la distanza della mia sedia da quel divanetto sul quale ci saremmo baciati, sul quale la mia bocca avrebbe bevuto il primo profumo di Marie-Claude prima di portarmela abbracciata fino a casa sua, salire quelle scale, spogliarci finalmente di tanti abiti e di tanta attesa.»
[Manoscritto trovato in una tasca, Ottaedro, Einaudi]
Ma questa destinazione, la debole fine di un destino che ci accomuna, è il termine di qualcosa o l’inizio casuale della novità, su una linea del tempo circolare fino alla nausea? Se sono stato stato innamorato, posso, caro Julio, innamorarmi di nuovo come se non fosse mai accaduto? Non c’è geometria nell’amore di Cortázar o ce n’è talmente tanta che se ne perde l’andamento: non c’è simmetria, perché tutto, nei suoi personaggi, è simmetrico e circolare. Anche il tempo gira su se stesso, dimentico della direzione suggerita dalla Caduta originaria. Se sceglie una strada, lo fa per ipotesi, come si risolve uno studio di funzione. E non se ne abbia il lettore, se quella in agguato è una strada di sogno, e l’amore più pensato che fatto, spesso accusa i malesseri orrorifici di certa metafisica. E allora li seguiamo, gli innamorati di Cortàzar, seguiamo Horacio, Ignacio, Lucio, Julio; seguiamo l’io narrante che, col pressapochismo vagamente snob che gli conviene, ci parla di qualcosa letto da qualche parte, ricercato nella biografia di qualcuno morto chissà quanto tempo fa. Ce ne parla continuamente, come se fosse la sola cosa importante; ci distrae da noi stessi e, peregrinando con una muta di bambini annoiati alle calcagna, immancabilmente, ci salva. Ma allora è troppo tardi per accorgerci che il possibile ci ha reso permeabili, che il sentimento è nuovamente (o fatalmente) parte di noi, perché nella concitazione dell’incubo l’abbiamo intuito nell’ombra, in quella che le gambe di Ana hanno proiettato a terra, accavallandosi nuovamente e accusando il sorriso di un sognatore in dormiveglia.
«Immediatamente, all’istante, perché in quella stazione non esistevano gli interminabili passaggi di altre volte e le scale conducevano rapidamente incontro al destino, a ciò che anche per i mezzi di trasporto si chiamava destinazione.»
[Manoscritto trovato in una tasca, Ottaedro, Einaudi]
Torniamo dunque a te, lettore, che hai smarrito l’unità di misura dell’amore, che rimedi alle stranezze della vita attraverso le stranezze della letteratura: non badare agli algoritmi del passato, ai déja-vu, alle poesie che ti sembra di aver già letto da qualche parte. Non tormentarti se ti sembra di ripeterti, se le persone di cui ti innamori si ricordano l’una con l’altra. Diffida, piuttosto, di ogni impresa che richiede vestiti nuovi e ricordati di Cortázar, che allo stare non ha mai dato peso e che dell’essere ha esteso il dominio, vincendo il terrore del non essere e abbracciandone lo stato. In un tempo dove nulla va perso, e tutto ritorna identico ma diverso, continuamente ci si innamora delle stesse persone, ma con un ritmo sincopato, differente, come accade, ahimè, nelle languide conversazioni del jazz.
– Carolina Crespi –