Tijuana, la vita oltre la frontiera
L’inizio di questo viaggio è una lama di coltello.
Anzi, più precisamente, l’impugnatura di un coltello: un osso lavorato, non meno tagliente e pericoloso della lama. Il regista francese Jean Charles Hue utilizza questa metafora – nel suo primo lungometraggio “Carne viva” – per descrivere la città di Tijuana, situata sul confine tra il Messico e gli Stati Uniti. Un luogo che si racconta solo per contrasti, marchiato dalla violenza, dalla prostituzione, dal contrabbando e presente nell’immaginario collettivo grazie ai versi pop di Manu Chao: Welcome to Tijuana, tequila, sexo y marihuana.
Al di là della frontiera c’è San Diego che, con le sue baie e i suoi grattacieli, stride con l’immagine di una realtà decadente, appena più in là, un mondo che non solo non ha più risposte, ma che fatica anche a farsi le domande.
Nel 1994 è stato innalzato un muro che arriva fino a dieci metri, costruito allo scopo di arrestare l’immigrazione clandestina e il traffico di droga. Sul lato messicano sono poggiate le croci con i nomi di chi è morto ammazzato mentre provava a superare la barriera. Naturalmente sono solo i nomi ufficiali. A pochi passi dal muro si è scoperto un tunnel dove i narcos facevano transitare la cocaina e le metanfetamine destinate ai consumatori americani. Un giro di affari di dimensioni esponenziali che la giornalista d’inchiesta Adela Navarro Bello, co-direttrice del settimanale “Zero”, ha denunciato senza paura di ritorsioni. “La paura non posso permettermela, comprometterei la qualità del mio lavoro e della mia vita. Mi rendo conto dei rischi che corro, ma non sono sola, ho una redazione solida: sono sempre rimasti tutti, nonostante le circostanze”. E dopo sette anni, Adela ha anche rinunciato a vivere sotto scorta, poiché – come afferma – “è totalmente incompatibile col mio lavoro. È assurdo intervistare qualcuno col giubbotto antiproiettile. Un contatto non si fida di te se ti presenti con sette uomini armati. Un giorno non l’ho più voluta”.
Per combattere la criminalità organizzata, da anni Tijuana ospita il “Forum internazionale per la cultura della legalità”, nel corso del quale si mettono a confronto le esperienze maturate nei diversi Paesi dell’America Latina, con riferimento alle peculiari condizioni socio-economiche.
Nel 2009, il direttore Francisco Rivas ha invitato una delegazione del “Progetto legalità in nome di Paolo Borsellino” al fine di indagare le strategie migliori per diffondere un messaggio unanime di ordine e di giustizia.
Tre anni più tardi, Jérôme Sessini realizza “The Wrong Side”, reportage nato da un’esperienza di quattro anni in Messico tra Culiacàn, Tijuana e Ciudad Juàrez, alcune tra le città più pericolose del mondo. Le fotografie di Sessini non “urlano”, non scadono nel sensazionalismo, piuttosto riescono a mostrare il vuoto, la desolazione delle prostitute, il buio delle case, dove l’unica luce proviene dalla televisione perennemente accesa, lo squallore delle strade non asfaltate, dove le auto avanzano nel fango.
“Le emozioni sono facili da provocare”, afferma il reporter francese, mentre ciò che auspica è che le sue immagini entrino in un rapporto dialettico con chi le guarda e riescano ad innescare una forma di comunicazione pura e senza filtri.
La «parte sbagliata del mondo», su cui si focalizza Sessini, fa da sfondo anche a numerosi film (da “Frontiera” con Jack Nicholson a “Traffic” con Benicio del Toro fino a “Bordertown” con Antonio Banderas) e a opere letterarie (dalla “Trilogia della frontiera” di Cormac McCarthy a “La polvere del Messico” di Pino Cacucci passando per “Ossa nel deserto” di Sergio Gonzàlez Rodrìguez).
Il tema del femminicidio lungo il confine tra il Messico e gli Stati Uniti, già presente in “2666” di Roberto Bolaño, costituisce l’asse portante dell’opera di Rodrìguez, giornalista e scrittore, che ha ottenuto una certa notorietà internazionale per aver scavato su questioni scomode, intrise di un’umanità cupa e tormentata. All’origine dell’ondata di omicidi ci sarebbe, secondo l’autore, “il puro e semplice gusto di uccidere delle donne, assieme a ragioni politico-economiche […]. Quasi sempre le vittime prescelte erano donne con certe caratteristiche: giovani, more, spesso immigrate senza radici nella zona. Venivano uccise in modo quasi rituale e a intervalli simili”.
Ai problemi citati si aggiunge quello dei tanti senzatetto – si stima sui trecentocinquanta – che vivono in condizioni precarie nei pressi del Tijuana River, al confine estremo del Messico. Alcuni trascorrono le giornate improvvisando letti di fortuna, altri elemosinando un piatto di fajita, altri ancora vendendo tartarughe giganti in porcellana.
Per tutti, la vita si ferma qui, tra le foglie di agave e i solitari cactus, in un «limbo asfittico e inospitale», dove i sogni delle persone sono sepolti dalla polvere del deserto.
– Paola Tribisonna –