Quando il cibo unisce: buio e burro d’arachidi
Circa un anno e mezzo fa, la foodblogger Jennifer Perillo scrive sul suo blog “In Jennie’s Kitchen” che suo marito è morto: si tratta di un attacco di cuore improvviso, che non le lascia neanche il tempo per salutarlo. Molti follower le chiedono come possono dimostrarle la loro vicinanza in un momento così difficile e lei risponde in maniera inaspettata: è un bel po’ di tempo che si ripromette di preparare il dolce preferito di Mikey, suo marito, ma alla fine non l’ha mai fatto.
Così, chiede a chi ne ha voglia di preparare il dolce al burro d’arachidi che suo marito amava tanto e di condividerlo con i propri cari il venerdì stesso. “Abbracciateli come se non ci fosse un domani, perché oggi è l’unica garanzia sulla quale possiamo contare” scrive. E aggiunge la ricetta per la Peanut Butter Pie.
Il cibo è unione, sembra dirci: nonostante le diversità, nonostante le distanze, nonostante i confini che indubbiamente ci separano, il cibo, alla fin fine, ci rende tutti uguali, tutti vivi e tutti mortali nello stesso identico modo. Come disse E. M. Forster, gli eventi principali nella vita di un essere umano sono cinque: nascere, mangiare, dormire, amare e morire. Mangiare e amare, però, sono quelli che più ci avvicinano gli uni agli altri.
Forse Jennie non si aspettava davvero che qualcuno avrebbe risposto, ma ciò che sembrava imprevedibile accade: decine e decine di persone dal mondo dei food blogger preparano il dolce per Mikey e postano la ricetta sul loro sito; commentano e lasciano un link al dolce che hanno preparato; spargono la voce su Facebook, dove nasce addirittura un evento: “Peanut Butter Pie Friday for Mikey and Jennifer Perillo”; ne parlano su Twitter e invitano altri blogger a seguire il loro esempio e a mettersi a cucinare: “Jennie, ricorda sempre quanto amore ti circonda. La luce di quell’amore ti farà andare avanti” dice Gail Dosik, “Un dolce per Jennie, un dolce per Mikey, un dolce per tutti noi” scrive Jen Yu, “Qualcosa di bello sta accadendo oggi. Sono così orgogliosa di fare parte di questa grande, folle famiglia del cibo” twitta Paula, “Siamo qui per nutrirti a nostra volta, in ogni modo possibile” dice Kat Kinsman. E c’è addirittura chi crea un video e lo dedica a Jennie.
Alcuni la conoscono di persona, ma molti soltanto attraverso il blog. Non importa: la comunità on-line partecipa, anche da distante, e mentre centinaia di persone aprono un barattolo di burro d’arachidi tutti pensano a Jennifer, al fatto che il suo dolore avrebbe potuto essere il dolore di chiunque, anche di loro stessi. È una sorta di veglia funebre moderna, ma anche un inno alla vita che si diffonde tramite il web, e che scalda il cuore.
Che il cibo sia qualcosa che abbiamo tutti in comune, ovviamente, lo sanno in tanti, soprattutto gli artisti. Steve McCurry, ad esempio, fotoreporter statunitense di fama mondiale, ha dedicato un’intera sezione del suo blog a fotografie legate al cibo provenienti da tutto il mondo: c’è chi taglia serpenti, chi vende pane seduto a terra, chi vende datteri e chi pranza con l’acqua alle caviglie. Ma non importa: perché tutti stanno mangiando, tutti stanno onorando la vita sotto forma di cibo. E McCurry non è il solo artista ad essersene accorto. Robin Kahn, ad esempio, ha partecipato ad una mostra allestendo una tenda con all’interno alcune donne della comunità Sahrawi e invitando il pubblico ad entrare e ad assaggiare un piatto di couscous, per poi chiacchierare con loro. Ha chiamato questi happenings “Couscous Events”, creando un luogo protetto per superare le differenze culturali.
Oltre i confini, dunque: non solo quelli fisici, non solo quelli disegnati sulle mappe o oltrepassati grazie al web. A volte, infatti, il cibo diventa mezzo per superare barriere di tipo diverso, come nel caso dei ristoranti Danslenoir, che sono sempre più popolari e si trovano ormai nelle più grandi città di tutto il mondo: Parigi, New York, Londra. Sono un vero e proprio fenomeno, forse anche mediatico e commerciale, che nasce, però, da un’idea particolare: avvicinarsi a un mondo a noi vicino eppure allo stesso tempo estraneo e spesso ignorato. Si tratta di cenare completamente immersi nel buio, senza sapere in anticipo quale sarà il menù, affidandosi esclusivamente a quattro dei cinque sensi. Ad aiutare i clienti del ristorante ci sono guide non vedenti, che li accompagnano durante un’esperienza che dice molto di più di tanti discorsi sull’uguaglianza: senza vedere per una sera, costretti a capire se quello che stiamo mangiando è carne o pesce, il cibo diventa ancora una volta veicolo per avvicinarci agli altri, e al loro mondo.
Perché le differenze ci sono, così come la sofferenza: lottiamo, combattiamo, facciamo guerre e poi moriamo. Non ci possiamo fare nulla. Proprio per questo, forse, l’unica cosa che ci resta è il cibo, che diffonde il nostro amore e che ci tiene in vita nonostante tutto.
– Lucia Gaiotto –