Noi nel linguaggio e la portiera della nazionale
Ieri, durante la partita della nazionale italiana, le telecroniste hanno detto: “(…) Laura Giuliani, il nostro portiere che ci tiene ad essere chiamata portiere e non portiera. Ce lo ha detto nei giorni scorsi, c’è appunto anche questa questione del linguaggio che continua a interessare, questi termini che se fossero declinati al femminile sarebbero decisamente cacofonici. Sono le stesse giocatrici che hanno detto no: preferiamo che cominci a passare un’interpretazione neutra del ruolo piuttosto che declinare tutto al femminile”. “Sono assolutamente d’accordo, questo già lo sapevamo, le giocatrici sono le prime a dirci a segnalarci queste cose…” “L’arbitro è chi dirige, il portiere è chi sta in porta, quindi a prescindere da uomo o donna è il ruolo che conta, quello deve passare, più che stravolgere un linguaggio in maniera…” “Sembra una forzatura, no?”.
Lo scambio è perfetto. Perché mostra come sia, innanzitutto, tutta una questione di abitudine: mentre si dice che la declinazione al femminile è “una forzatura” (e in un certo senso all’inizio lo sarà sempre stata, ma tant’è) si usa senza alcun problema “le giocatrici”. Per molti mestieri e professioni in cui la presenza delle donne è consolidata e la vecchia abitudine è già stata sostituita, la declinazione al femminile non suscita (più) alcuna obiezione e viene usata (ora) in modo automatico: infermiera, maestra, operaia, modella, cuoca. Mentre per altri mestieri, nei quali le donne sono visibili solamente da poco, è un problema. La prima obiezione al loro uso è che “suona male”, “è brutto”, “è cacofonico”. Ma, oggi, mi sembra più scioccante dire “Marguerite Yourcenar è uno scrittore famoso” che non “Marguerite Yourcenar è una scrittrice famosa”, mentre un tempo forse valeva il contrario. Una parola nuova viene insomma giudicata brutta, molto spesso, proprio in quanto è nuova: perché va contro la tradizione, la purezza, la continuità. Come dice però nelle sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana la linguista Alma Sabatini – che ha scritto quel manuale nel 1987 per la Presidenza del Consiglio dei Ministri – «in molti casi è proprio la mancanza del termine nuovo a causare scorrettezza e dissonanze nella lingua». Insomma, va a finire innanzitutto che non ci capiamo.
Pensiamo a quella famosa storiella introdotta dal filosofo Douglas Hofstadter nel 1983 per spiegare il tema dei “presupposti riduttivi”: un padre e un figlio fanno un incidente. Il padre muore, il figlio è grave, viene portato in ospedale e deve essere operato Arriva il chirurgo che si aspetta un caso di routine, ma alla vista del ragazzo sbianca e mormora: “Non posso operare questo ragazzo… è mio figlio”. Prosegue Hofstadter: «Come si risolve questo macabro indovinello? Come si può spiegare la cosa? Forse il chirurgo mente oppure si sbaglia? No. Lo spirito del padre morto si è in qualche modo reincarnato nel corpo del chirurgo? No. Forse il chirurgo è il vero padre del ragazzo mentre l’uomo morto era il padre adottivo? No. Qual è allora la spiegazione?». Hofstadter dice che ci mise circa un minuto a trovare la risposta, che rimase molto colpito dalla sua prestazione e da quella media del gruppo in cui si trovava («Un paio delle persone presenti rimasero più di cinque minuti a rompersi la testa prima di trovare la risposta e quando infine ci arrivarono rimasero a bocca aperta»). Il chirurgo era la madre.
Il filosofo spiega come i presupposti riduttivi (in questo caso che il chirurgo dovesse essere un uomo) funzionano come un automatismo, sono impliciti, «permeano le nostre rappresentazioni mentali e incanalano i nostri pensieri». «La maggior parte di noi aveva costruito ogni tipo di bizzarro mondo alternativo, invece di immaginarne uno in cui una donna potesse fare il chirurgo. Ridicolo. Questo fatto mi fece chiaramente capire quanto siano profondamente radicati i nostri presupposti riduttivi e quanto poco ne siamo coscienti. In potenza mi sembrava che la cosa potesse avere conseguenze molto maggiori di quanto si potrebbe ingenuamente pensare. Lungi da me ritenere che il linguaggio faccia di noi ciò che vuole, che noi siamo i suoi schiavi, ma d’altra parte penso che dobbiamo fare del nostro meglio per liberare il linguaggio da usi che possono indurre o rafforzare presupposti riduttivi nella nostra mente».
Uno studio recente condotto in Francia lo ha effettivamente dimostrato. A un gruppo di mille persone è stato chiesto di citare «due scrittori celebri» e solo il 12 per cento ha pensato a una donna. Quando è stato chiesto di citare «due scrittori o scrittrici celebri», la percentuale di chi ha nominato una donna è raddoppiata. Lo studio ha mostrato poi le stesse tendenze quando si trattava di nominare campioni o campionesse olimpiche, presentatori o presentatrici della tv.
Nella finzione dell’universale neutro la differenza femminile scompare e viene inglobata (dal due all’uno): quando le donne sono rese invisibili nella lingua, da un presunto neutro maschile, lo sono anche nella mente e nella vita vera (il mondo del lavoro, per fare un esempio, è costruito su un modello che considera la maternità un’interruzione). Ed è uno dei trucchi più semplici ed efficaci su cui è stata costruita la società patriarcale. Il linguaggio non è qualche cosa di “naturale” o di “neutro”, è una costruzione che ha un soggetto ben preciso e che rimanda a un sistema ben preciso. Quel soggetto ha un sesso e quel sistema pure. Pensiamo alla scelta di assumere l’uomo come uno dei due generi della specie umana ma allo stesso tempo come paradigma universale dell’intera specie (“l’Uomo”), o alla scelta dell’espressione “suffragio universale” applicata per lungo tempo (anche da giuristi e filosofi) a tutti gli uomini con esclusione delle donne.
Una regola sul genere grammaticale femminile di ruoli istituzionali e professioni è stata comunque stabilita. Lo ha fatto Sabatini negli anni Ottanta, poi l’Accademia della Crusca e pure il CNR: è corretto chirurga, avvocata, architetta, magistrata, ministra, sindaca e così via. Con alcuni suffissi il passaggio è più problematico, ma la soluzione c’è. E l’indicazione per le parole che finiscono in -ere è di farle finire in -a: ingegnere/ingegnera, ferroviere/ferroviera, cancelliere/cancelliera, magazziniere/magazziniera.
Già nel Grande Dizionario Italiano di Aldo Gabrielli, del 1976, si dice che il femminile di “portiere”, riferito a chi custodisce la porta di ingresso di un edificio è “portiera”. Ma in quel caso, mi pare che nessuno abbia sollevato l’obiezione che si è sentita circolare nelle ultime ore su Laura Giuliani: e cioè che “portiera” non va bene perché fa pensare alla portiera della macchina. Vale il contesto, dunque. Anche nel caso in cui la portiera sia la persona che sta in porta per impedire l’entrata della palla: è evidente che quella cosa verde è un campo da calcio e non un parco macchine, no?
È già accaduto che quando le donne hanno cominciato a occupare i posti che un tempo erano dominio dei maschi, la grammatica si sia adeguata (operaia). Può continuare a farlo, nessuno è diventato sordo. Iniziamo ad usare, ad esempio durante la telecronaca, le forme corrette e cominceranno a suonarci benissimo.
Il punto vero è che qui non stiamo parlando davvero e solamente di grammatica. Declinare insistentemente al maschile quando c’è una donna al centro o insegnare nelle scuole che il maschile prevale sul femminile (nei plurali, ad esempio) induce rappresentazioni mentali che portano le donne e gli uomini ad accettare il dominio di un sesso sull’altro. Il linguaggio può invece diventare il grado zero di una forma di “resistenza”, un mezzo di sovversione, il primo e il più facile perché a disposizione ogni volta che apriamo la bocca. Attribuisce a ciascuno e a ciascuna un potere di azione. Funziona come un fatto: «Le proprie parole fanno cose così come le si dicono», diceva la filosofa femminista Judith Butler.
Al pari riconoscimento dei diritti che le giocatrici della nazionale giustamente rivendicano (insieme a molte altre), si arriva attraverso il riconoscimento della propria differenza. Che non è un disvalore: semplicemente è. Cominciamo dunque noi per prime a nominarci senza paura, vorrei dire a Laura Giuliani: a forzare, a sopportare il fastidio nelle orecchie, lo scarto, a cambiare dal momento in cui apriamo bocca quel modello che finora ha rappresentato l’unico riferimento e che vogliamo trasformare: ché questo porta immediatamente con sé tutta una serie di significati reali e sostanziali. Iniziare a rivendicare un riconoscimento continuando a nominarsi come un uomo, significa non aver compreso la trappola: l’adattamento al modello maschile, l’essere pensate e rappresentate come brave o legittimate in quel ruolo solo se lo siamo come un uomo. Ma solo formalmente, come è evidente, pagandone poi un prezzo personale altissimo.